La realtà della tragedia trovava nella narrazione la possibilità di fissarsi nella memoria e soprattutto di riproporsi in una successiva narrazione. E’ con questo costante riproporsi che la tragedia è diventata memoria collettiva.
Un’altra condizione essenziale delle modalità con le quali in quella diretta si sviluppava la narrazione, è quella dell’attesa ansiosa. Non vorrei definirla suspense, intesa come espediente narrativo. Ma proprio attesa ansiosa. Mentre si assisteva a quelle scene, mentre si ascoltavano le voci a volte concitate, a volte pacate dalla rassegnazione, mentre dal pozzo risalivano i respiri del bambino, dentro ciascuno di coloro che se ne stavano inchiodati davanti al televisore, si ingrossavano onde d’ansia, di terrore che da un istante all’altro potesse finire nel mondo in cui nessuno voleva che finisse. Si avvertiva il terrore che non si potesse avere più speranza. Alfredino era l’oggetto vero e vivo di una speranza. Era il soggetto di una narrazione nella quale il protagonista non era personaggio ma persona che invocava aiuto, e quanto più si faceva silenziosa quell’invocazione tanto più cresceva il terrore.
Splendidi sono stati gli anni Ottanta. Ma sono cominciati con quella tragedia del loro principio che ha ne costantemente offuscato lo splendore.
Quella morte di un bambino raccontata con immagini e parole mentre si manifestava, si sviluppava, accadeva terribilmente, andava ad incidersi nella sostanza della memoria. Quelli che allora avevano vent’anni, per esempio, associano le immagini dei loro vent’anni anche alla memoria di quel bambino. Accade la stessa cosa per chi ne aveva trenta, per chi ne aveva quaranta ed ha ancora il privilegio di ricordare. Nessuno ha dimenticato. Si è dimenticato altro, molto altro, probabilmente, come si diceva. Ma nessuno ha dimenticato la tragedia di Alfredino raccontata per tre giorni, ininterrottamente.
Certo, per quella narrazione si pagò un prezzo altissimo. Ha detto Piero Badaloni che “quando qualcuno decise di mandare in onda il dialogo tra la mamma e Alfredino che si trovava giù nel pozzo… in quel momento si superò una misura che non doveva essere superata”.
E’ vero. Ma forse fu per quel prezzo altissimo che fu pagato, fu per quella misura dolorosamente superata, che la storia di Alfredino è diventata memoria soggettiva e collettiva, simbolo e rappresentazione.
Oggi possiamo dire quanto è costato non fermarsi ad un certo punto, oltrepassare la soglia del dolore privato, superare la misura che non doveva essere superata.
Ma non possiamo dire quanto sarebbe costato se quella misura non fosse stata superata. Si potrebbe anche ipotizzare che Alfredino non sarebbe diventato memoria di tutti e di ciascuno. Oggi basta un nome. Basta soltanto pronunciare il nome di Alfredino e non c’è bisogno di aggiungere nient’altro. Ci si ricongiunge a quella storia e anche alla propria storia e si ricostruiscono le due storie, e a volte sembra anche di riprovare l’attesa ansiosa di quelle sere, di quelle notti, soltanto pronunciando il nome di Alfredino.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica, 13 giugno 2021]