di Antonio Errico
Si crede in qualcosa, comunque, sempre. Si crede in modo convinto, senza ombra di dubbio, con lucido pensiero, entusiasmo, sentimento. Si crede in qualcosa e si ha la certezza che in quella cosa si crederà per sempre, che non sarà mai possibile la rinuncia, la riconsiderazione, il ripensamento.
Anche perché spesso quello in cui si crede viene da lontano, dalle profondità della propria storia, da quella della gente e della terra alle quali si appartiene, viene da una conformazione della mente, dalle esperienze che si sono fatte, dalle conoscenze che sono maturate, viene anche da qualche piacere, da qualche dispiacere.
Poi qualche volta può anche accadere che a quella cosa si smetta di credere. Che ci si imponga di smettere. Che si finga di aver smesso.
Io lo sapevo che lui stava fingendo mentre mi diceva di aver smesso di credere nella letteratura del Salento, ai suoi nomi, i suoi riti, i suoi miti, a tutte le invenzioni di significati, a tutte le illusioni sulle prospettive culturali, a tutte le metafore azzardate. Ai suoi incantesimi. Io lo sapevo che stava fingendo mentre mi diceva che bisogna dimenticare, che adesso è tempo di dimenticare, o almeno di smettere di parlare – ancora e ancora – di Vittore Fiore e Vittorio Bodini, di Rina Durante e di Vittorio Pagano, che bisogna smettere di parlare – ancora e ancora- di Antonio Verri e Salvatore Toma, di Claudia Ruggeri e Aldo De Jaco, e di tutti quegli altri di cui si continua a parlare, ancora e ancora. Che anche di Edoardo De Candia bisogna smettere di parlare. Adesso è tempo di smettere. Adesso è tempo di scagliare lo sguardo avanti, in lontananza.