Allora, forse la distinzione non dovrebbe coinvolgere le categorie del nuovo o dell’antico, ma quelle della profondità e della superficie. Qualche volta si ha l’impressione che il confronto con i saperi si limiti alla superficie. Si ha l’impressione che non si abbia il tempo di assimilare, di mettere a confronto metodi e concetti in modo da verificare se un nuovo modello di conoscenza costituisca uno sviluppo di quello precedente e quindi di ipotizzare i risultati sulla base di elementi concreti. Si ha l’impressione, talvolta, che la superficialità con la quale stabiliamo una relazione con il sapere sia una condizione che interessa e attraversa ogni territorio culturale. Consumiamo gli oggetti delle conoscenze e anche gli esiti delle esperienze con una imprudente rapidità e con l’inevitabile conseguenza della dissolvenza di quegli oggetti e di quegli esiti, quasi che quel nuovo non sia mai venuto, che non sia accaduto niente. Consumiamo in fretta. Dimentichiamo in fretta. Così dell’esperienza e della conoscenza non resta niente.
Si perde anche la superficie e, ancora inevitabilmente, le stratificazioni di significato che essa contiene e che non abbiamo saputo neppure intuire. Ecco perchè si perdono secoli, visioni del mondo, passaggi di storia fondamentali.
Forse non è un problema di vecchio o di nuovo, di moderno o di antico, dunque. E’ un problema di profondità o superficie. E’ come se uno avesse la sfrontatezza di dire di conoscere il mare soltanto perché se ne sta a guardare i movimenti leggeri delle onde. Il mare è la profondità che non si vede. Ma in pochi, in pochissimi possono conoscere la profondità del mare attraverso l’esperienza. In pochi, in pochissimi possono giungere alla conoscenza attraverso l’esperienza diretta. La conoscenza diretta rappresenta una percentuale minima della conoscenza di ciascuno e di una civiltà. Si conosce indirettamente, con la mediazione delle scienze, delle arti. La profondità del mare si conosce con questa mediazione. Ma nella relazione con le scienze e con le arti bisogna andare in profondità, e a volte bisogna anche avventurarsi al largo, “dentro, più dentro dove il mare è mare”, dice il finale del grande romanzo di Stefano D’Arrigo, imparare a sentire la forza delle correnti e la loro confluenza. Poi non basta nemmeno andare nella profondità di una sola scienza, di una sola arte. Si deve comparare quello che si è appreso, metterlo in relazione, integrarlo, farlo interagire. Possono essere diversi i livelli di profondità ai quali si arriva: in un’arte, in una scienza, possono essere maggiori, in un’altra minori, a seconda degli interessi, delle finalità, della formazione di ciascuno. Ma ad una profondità si deve arrivare.
Quando i tempi e le storie passano, di quei tempi e quelle storie si avverte la mancanza. Una quasi nostalgia. Ma si sente la mancanza e una quasi nostalgia soltanto di quelle stagioni e quei particolari delle storie che abbiamo vissuto in profondità. Tutto il resto si dimentica. E’ una legge naturale.
Accade la stessa cosa nella nostra relazione con le espressioni culturali. Rimangono soltanto quelle di cui abbiamo esplorato le profondità. Tutte le altre è come se non ci fossero mai state. Non ne abbiamo memoria. Non lasciano traccia. Forse quello che resta è soltanto il rammarico per il tempo che abbiamo dedicato alla superficialità.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 30 maggio 2021]