di Antonio Errico
Quando i tempi passano e le storie di quei tempi diventano come scene sfocate in lontananza, e le cose che a quei tempi sono appartenute si trasformano in nient’altro che impolverati souvenir, allora può accadere, certe volte, che di quei tempi e quelle storie e quelle cose si avverta la mancanza. Una quasi nostalgia. Accade nell’esistenza di ciascuno. Accade nei contesti del sociale e quindi anche nelle forme e nei contenuti culturali.
Così in qualche caso ci si chiede, per esempio, se quello che sopraggiunge con la fisionomia del nuovo sia nuovo veramente. Oppure ci si chiede se risulta veramente indispensabile, o almeno necessario, o almeno conveniente, rimuovere certe strutture culturali che per anni, per decenni hanno dato significativi risultati. Ci si chiede se è indiscutibilmente vero che il nuovosia sempre e comunque migliore dell’antico o se intorno a questo si può anche ragionare, operare distinguo, cercare di valutare quanto si perde e quanto si guadagna a promuovere o ad accettare mode e modelli culturali senza verificare la profondità delle loro radici.
Che il progresso si fondi sostanzialmente sul nuovo non c’è da dubitare. Ma non è possibile permettersi di sbagliare gli accertamenti che si fanno sulla consistenza del nuovo rispetto ai contenuti e alle forme culturali; non è possibile procedere con modalità superficiali. Perché quando si perde qualcosa che riguarda quei contenuti e quelle forme, diventa molto difficile e forse anche impossibile recuperare. Si perdono secoli di conoscenze. Visioni del mondo. Configurazioni di pensiero. Rallentano i processi di costruzione dei saperi fondamentali. Gli orizzonti si restringono e si fanno nebulosi.