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Armamenti. Riferisce Michele Serra ne “La Repubblica” del 23 maggio 2020, p. 28, nella sua rubrica “L’amaca”: “Secondo il SIPRI (Stockholu International Peace Research Institute) nel 2019 la spesa militare degli USA, tenendo conto anche dei costi dell’intelligence e della spesa (colossale) per i militari a riposo, ha toccato i 900miliardi di dollari, quasi la metà di quanto spende, per armarsi, il mondo intero, attenendosi solo alle cifre ufficiali (incalcolabile il mercato clandestino).” La conclusione di Serra è la seguente: “Che ci volete fare. Non si tratta, qui, di fare pistolotti morali o inutili predicozzi. Si tratta di trarre le conseguenze di come funziona il mondo, di come ragionano gli uomini. Fino a che gli uomini spenderanno per armarsi quanto basterebbe per sfamare e dissetare due interi pianeti, niente di sostanziale potrà cambiare sotto il cielo.”
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Ricerca e studio. Sulla vita degli studenti universitari di oggi, dice la sua Giorgio Agamben in Studenti, Quodlibet. Una voce. Rubrica di Giorgio Agamben, 15 maggio 2017 (quodlibet.it/giorgio-agamben-studenti). Agamben parla di “impostura terminologica” consistente nella “sostituzione in ogni ambito della parola “ricerca” a quella, che appare evidentemente meno prestigiosa, di “studio”. Agamben spiega: “A differenza del termine “ricerca”, che rimanda a un girare in circolo senza ancora aver trovato il proprio oggetto (circare), lo studio, che significa etimologicamente il grado estremo di un desiderio (studium), ha sempre già trovato il suo oggetto. Nella scienze umane, la ricerca è solo una fase temporanea dello studio, che cessa una volta identificato il suo oggetto. Lo studio è, invece, una condizione permanente. Si può, anzi, definire studio il punto in cui un desiderio di conoscenza raggiunge la sua massima intensità e diventa una forma di vita: la vita dello studente – meglio, dello studioso. Per questo, al contrario di quanto implicito nella terminologia accademica, in cui lo studente è un grado più in basso rispetto al ricercatore – lo studio è un paradigma conoscitivo gerarchicamente superiore alla ricerca, nel senso che questa non può raggiungere il suo scopo se non è animata da un desiderio e, una volta raggiuntolo, non può che convivere studiosamente con esso, trasformandosi in studio.”
Ciò a cui oggi si assiste in ambito universitario è il primato della ricerca senza studio, ovvero un continuo circare molto simile al comportamento del cane che insegue la sua coda. Raramente lo studente diventa uno studioso, più spesso il suo fine è quello di realizzarsi in una professione oppure di continuare in questa operazione circolare, il circare, non animata da studio, ma finalizzata alla individuazione di qualcosa di nuovo (?) da sottoporre all’attenzione della comunità dei ricercatori: un pianta sconosciuta, un vaccino salvifico, un insetto non ancora classificato, ecc. Pochissimi amano davvero (studere) il sapere. I più lo temono.
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Cannibalismo, secondo Carlo Cattaneo, Un invito agli amatori della filosofia, Scritti, Sansoni, Firenze 1957, pp. 264-265: “Un orribile fatto è l’antropofagia, che pur dura da miliaja d’anni, e per quanto pare dai primordj delle razze umane. E non è un eccesso di furor famelico in rari e strani casi determinato da disperazione di naufraghi e d’assediati; non va nemmeno sempre insieme al bisogno; è una barbara tradizione cara a molti popoli quanto a noi le lettere e i teatri. Presso gli Aztechi, dominatori del Messico, si esercitava nella prosperità, in commemorazione di vittorie, a guisa d’auto da fé, tra pie cerimonie e danze festive. Se tre secoli di testimonianze oculari, ignote ai filosofi antichi, non ci attestassero, il fatto della vita cannibale, chi di noi, mirando entro il fondo della nostra coscienza, à la clarté de cette lumière, ve lo avrebbe potuto scoprire? E con qual fremito d’orrore e d’odio non avrebbe la civil società udito da lui l’annuncio di così strana scoperta? Con qual nome d’infamia non lo avrebbe additato ai posteri per sì atroce delirio? Or se la filosofia, nel trattar della natura umana, prescinde da simili fatti e sì divulgati e diuturni, sol perché non li ritrova più nella coscienza dei popoli inciviliti, essa li inganna. Se non vi si trovano più, egli è perché la civiltà li ha cancellati: e ha scritto al luogo loro quei dettami del senso morale che poi la scienza afferma impressi dalla natura; ch’è quanto dire communi ai cannibali.”
Da ammirare l’onestà di Carlo Cattaneo che contro ogni pregiudizio moralistico, afferma come un fatto, la originaria natura cannibalica dell’uomo. Egli si ferma però a metà strada, quando pensa che la civiltà abbia cancellato quella natura originaria dell’uomo, mentre invece le si è solo sovrapposta, ma non a tal punto da nasconderla del tutto. D’altra parte, a Cattaneo non si può chiedere di più: Nietzsche non era ancora nato!
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Rileggo il Robinson Crusoe di Daniel De Foe nella traduzione in due volumi di Augusta Grosso Guidetti, UTET, Torino 1959. Robinson è l’uomo civile, capace di ricreare la civiltà nella situazione estrema in cui si è cacciato, è il timorato di Dio, reo semmai di esserlo diventato troppo tardi, ma sempre in tempo per procurarsi la salvezza dell’anima. La sua ossessione è quella di essere divorato dalle bestie feroci e dai cannibali, questi ultimi ad esse equiparati. Il cannibale è l’uomo selvaggio, fermo ad uno stadio evolutivo primitivo, e come tale suscita l’orrore dell’uomo civilizzato. La civiltà si contraddistingue infatti per il tabù principale, che consiste nel divieto di mangiare la carne umana. Civiltà significa: non mangiare il tuo simile. Viene da chiedersi a questo punto come si modifichi il rapporto tra uomo e uomo, una volta che l’uomo civile ha introiettato il tabù che gli impedisce di mangiare la carne umana. Da cosa è sostituita la pratica cannibalica? Proprio nel Robinson Crusoe troviamo la risposta. Robinson racconta un suo sogno che prefigura il suo incontro con il selvaggio (e antropofago) Venerdì: “Sognai (…) che uscivo una mattina, come al solito, dal mio castello, quando vidi sulla spiaggia due canoe e undici selvaggi che venivano a terra, e portavano con sé un altro selvaggio, coll’intenzione evidente di ucciderlo e mangiarlo; ed ecco che, all’improvviso, il selvaggio che stavano per uccidere saltò via e corse per salvarsi la vita. Mi parve, nel sonno, che giungesse di corsa proprio nel boschetto davanti alla mia fortificazione, per nascondersi. Vedendo che era solo e che gli altri non lo cercavano da quella parte, mi feci vedere, gli sorrisi e lo incoraggiai a venire fin da me; ed egli si inginocchiò ai miei piedi, in atto di preghiera. Allora gli feci vedere la scala, lo portai nella mia grotta ed egli diventò il mio servo.” (p. 262).
La risposta alla domanda “da cosa è sostituita la pratica cannibalica?” è in una parola: il servaggio. L’uomo civile non mangia l’altro uomo, ma lo rende suo servo: Venerdì diverrà il servo fidato di Robinson. E si consideri che Venerdì, sottratto ai cannibali che volevano mangiarlo, è anch’egli un cannibale (cannibale in quanto selvaggio); severamente redarguito da Robinson, rinuncia alla carne umana, diventando suo servo. Dice Robinson: “… lo avrei ucciso se avesse dimostrato la minima voglia di carne umana” (p. 272): è questo il primo passo, il più importante perché avvenga la metamorfosi da selvaggio cannibale a uomo civilizzato-servo. La sottomissione dell’uomo all’altro uomo, la pratica del dominio, è ciò che caratterizza, dunque, la civiltà, che appare organizzarsi proprio intorno al tabù cannibalico (così accade appunto a Robinson, la cui vita è un continuo sfuggire ai cannibali). Come dire che, perché ci sia civiltà occorre che viga la diseguaglianza tra gli uomini. Ci vogliono servi e padroni, e dove mancano gli uni e gli altri, là c’è il cannibalismo.
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La schiavitù antica secondo Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., pp. 1361-1362: “… lo schiavo antico era una figura del diritto pubblico; nel corpo politico della Polis antica esso non esisteva, ma dal punto di vista economico poteva essere un contadino, un artigiano, perfino un direttore o un commerciante con un ingente capitale (peculium), con case e ville e una schiera di dipendenti, i quali potevano perfino essere dei “liberi”. E ancora, a p. 1374: “Poiché l’economia antica era statica e non dinamica e ignorava lo sfruttamento razionale delle fonti di energia, gli schiavi dell’epoca romana non venivano razionalmente utilizzati, ma venivano occupati in un qualche modo così che se ne potesse tenere il massimo numero possibile. Si preferivano schiavi di lusso che sapevano esercitare una qualche attività perché, il costo del sostentamento restando lo stesso, rappresentavano un maggiore valore; li si cedeva a prestito, come si dà a prestito denaro liquido; si lasciava che si dedicassero per conto proprio agli affari, per cui essi potevano anche arricchirsi; li si offriva a sostituire il lavoro libero – il tutto per coprire almeno le spese di mantenimento di questo capitale. La maggior parte degli schiavi non poteva in alcun modo essere impiegata a pieno rendimento. Essi rispondevano allo scopo che si aveva in vista con la loro semplice esistenza, costituendo una riserva di denaro che si aveva sotto mano e che nel suo volume non era legato dai limiti fisici della quantità dell’oro allora esistente. Ma per tal via la richiesta di schiavi crebbe a dismisura…”.
In questo modo gli antichi nascondevano l’ancestrale cannibalismo. E i moderni?