Ma prima di valutare la sentenza di Draghi dal punto di vista del paradigma del dono, non è superfluo ricordare che la proposta del segretario del Pd Letta, per quanto modesta, si inscrive nella tradizione della giustizia distributiva che ha segnato l’identità della sinistra europea di ispirazione socialdemocratica (nella molteplicità delle sue varianti). Di questa tradizione è parte integrante l’idea dell’eguaglianza delle chances, coltivata da quella corrente del liberalismo che è stata definita del welfare State (rappresentata da J. Rawls), secondo cui una società giusta deve garantire eguali condizioni di partenza (non un’eguaglianza di risultati o di redditi) ai suoi cittadini. È evidente che in questa idea-madre del liberalismo del welfare State rientrino, come ha osservato il filosofo americano Michael Sandel, sia una retorica della mobilità sociale sia un’etica del successo. È noto che a questa versione egualitaria di liberalismo è subentrata, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, una sorta di “liberalismo del mercato” (propugnato da Hayek), i cui più convinti sostenitori sono stati i conservatori Thachter e Reagan, ma anche, sulla loro scia, gli esponenti della sinistra europea e americana da Blair a Schroeder, da Bill Clinton alla moglie Hilary, da Hollande a D’Alema. Aprendo così le porte alla reazione populista, culminata nell’elezione di Trump. Ora, per spiegare la vittoria del populismo, Sandel sottolinea che il Partito Democratico americano e i partiti della sinistra europea, da un certo momento in poi, hanno condiviso quella che chiama la “svolta meritocratica”, vale a dire la credenza che competere sulla base del talento e dello sforzo comporta un “allineamento dei risultati del mercato con il merito, ma ciò sarebbe vero solo in una società in cui le opportunità fossero uguali per tutti/e”. In altre parole, il lato oscuro della concezione meritocratica risiede nel far ricadere tutto sulla responsabilità personale, spostando in tal modo i rischi, le insicurezze e i costi sociali dai governi e dalle aziende agli individui. In ciò si sono manifestati i limiti della giustizia distributiva, che non è riuscita a imbrigliare le dinamiche selvagge del mercato e, addirittura, ne ha promosso la logica intrinseca favorendo l’incremento esponenziale delle diseguaglianze e l’erosione progressiva dei diritti sociali. Ma qual è la soluzione suggerita da Sandel? Egli propone di integrare la giustizia distributiva rivolta a mettere in atto politiche redistributive della ricchezza (del tipo, per intenderci, di quelle avanzate da Biden e da Letta) con una politica contributiva. Si tratta di politiche che offrono “l’opportunità di guadagnare il riconoscimento sociale e la stima di sé a quelli e a quelle che producono ciò di cui gli altri hanno bisogno e ciò a cui tengono” (ad esempio, quanti nel periodo del lokdown si sono sacrificati per la collettività). Ma questa “politica del bene comune”, suggerita da Sandel, non sembra essere sufficiente a ridare dignità a tutte le forme del lavoro, anche le più umili. A tal fine, occorre in primo luogo comprendere che il pregiudizio da estirpare è la concezione consumistica della libertà, misurata esclusivamente sull’espansione indiscriminata del potere d’acquisto e sull’economia finanziaria con il corteggio parossistico di bassi salari, uberizzazione dei servizi, delocalizzazioni produttive, ecc. Dove la ripartizione tra salari e profitti è tutta sbilanciata da una parte sola, talvolta con una sproporzione moralmente e socialmente ingiustificabile. Ma, contestualmente, creare le condizioni per il riconoscimento sociale e la stima di sé di chi esercita un lavoro e una professione – o di chi vuole poter accedere a un lavoro o a una professione – significa che in una società democratica decente vige un’obbligazione etica e politica da parte di ciascuno a cooperare nel prendersi cura degli altri e, dunque, di contribuire al bene comune mantenendo la catena di solidarietà tra le generazioni. Sotto questo profilo, la ripartizione salari/profitti deve avere una prospettiva post-utilitaristica di rinvio a un progetto di società conviviale, cioè di una società in cui si dà per ricevere di più, non solo in termini monetari ma soprattutto in termini di intelligenza comune e di civismo. Poiché per conseguire i nostri progetti di vita siamo sempre in debito verso gli altri, occorre restituire alla comunità – in particolare, a chi non ha i mezzi sufficienti – quanto essa ci ha dato senza che il più delle volte ce ne siamo resi conto. Naturalmente, senza il conflitto redistributivo la valorizzazione del lavoro e il riconoscimento della stima di sé non possono avere luogo. Per questo il passaggio dalla giustizia distributiva alla giustizia contributiva è oggi tra le sfide più importanti per costruire una democrazia (e una sinistra) del XXI secolo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 23 maggio 2021]