Giancarlo Majorino. Il molteplice nel singolo

di Antonio Prete

Eleganza e ironia: sono queste le due prime figure – del vivere, del pensare – che mi vengono in mente quando penso a Giancarlo Majorino, scomparso il 20 maggio. La poesia non è stata per lui solo un’esperienza di linguaggio e di ricerca, d’invenzione e di rappresentazione critica di un’epoca, ma un atto di vita, una forma essenziale e necessaria della vita. La lingua della poesia, della quale conosceva bene forme e tradizioni, era per il poeta della Capitale del Nord (1959) e di tanti altri bei libri, una terra da sommuovere, ricomporre, reinventare: ma sperimentare non voleva dire sottrarsi alle urgenze delle grandi domande per abbandonarsi al puro esercizio formale e linguistico, al seguito di passeggeri neo-avanguardismi; sperimentare significava invece portare la parola in quello scarto dalla convenzione e dall’uso che fa sgorgare un nuovo sguardo sulla realtà, anzi della realtà riesce a mostrare quello che il pensiero dominante e l’opinione comune nascondono.

Un’idea di realtà che assorbiva in sé il possibile, persino l’utopico, e punti di vista plurali, mobili, punti di vista in grado di sovvertire quello che Majorino chiamava lo “stile mercantile” (ricordo su questo un suo lontano intervento su “Quaderni piacentini”). 

Quando intitolò, nel 1977, un’antologia della poesia italiana Poesie e realtà, antologia poi ripresa, anzi riscritta e ricomposta nel 2000, quella realtà del titolo poteva apparire astratta e desueta, e invece intendeva richiamare la posizione di ogni poeta dinanzi alle domande che salivano dalle ferite diffuse nel mondo e dal vivo delle esistenze – esistenze degli individui e dei molti (i “molti”, la vita delle moltitudini, era un’altra delle forti attenzioni di Giancarlo). Allo stesso tempo quella ricerca di una rappresentazione attiva e complessa della realtà portava con sé l’urgenza di un mutamento. 

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