Emilio Filieri, nel suo saggio Tempo e poesia in Cronache e paràbbule di Nicola G. De Donno, spiega come, nelle poesie di De Donno, il dialetto avesse abbandonato la sua funzione meramente descrittiva se non folkloristica, per guadagnare uno statuto etico, di lingua cioè usata per investigare il senso dell’esistenza, per interrogarsi sui valori universali e riaffermare concetti storicamente percepiti e immortali. Specificatamente, in Cronache e paràbbule, come lo stesso titolo indica, De Donno descrisse piccole scene, brevi racconti, come sono appunto le parabole, e lo fece con finalità etiche, distanziandosi cosi da coloro i quali usavano il dialetto per richiamare sonorità e concetti per fini prevalentemente folcloristici o di “divertimento”. In queste poesie, egli cercò di descrivere quello che era per lui un sistema di potere autoreferenziale, che aveva la sola finalità di perpetuarsi nel tempo. Pensieri etici e temi civici costituirono quindi, per De Donno, una salvaguardia da derive di provincialismo benpensante e furbesco. Egli vi contrappose le relazioni umane, reali e di reciprocità. Rimarchevole fu in Cronache e paràbbule la metafora della “Luna” esistenzialista e riflessiva, che è mossa da pietas verso le ingiustizie e le miserie umane che essa intravede sulla terra, alla quale De Donno contrappose invece il silente e colpevole distacco della “Terra” stessa. Questo testo si compone di 4 Sezioni: Le cose mei (13 sonetti), Le cose de Maje (57 sonetti), Parabbule (47 sonetti) Cronache (63 sonetti).
Nell’intervento Lu senzu de la vita»: la poesia ‘filosofica’ in dialetto di Nicola G. De Donno, Antonio Lucio Giannone si sofferma sulle ultime due opere del De Donno: Palore (1988-1998) (1999) e Filosofannu? Cu LLe vite, la Vita? Ma la Vita è scura (2002). Queste poesie sono incentrate sull’io esistenziale, ovvero sull’io alla ricerca del senso ultimo della vita e teso alla descrizione del reale per conseguire risvolti etici nell’azione umana. Indaga, inoltre, attraverso le poesie di De Donno, anche l’io del potere, ovvero l’io che si rinchiude nei luoghi decisionali, cioè nei palazzi, e l’io delle piccole comunità, quello dei luoghi di appartenenza del poeta De Donno. La satira e il fine etico-sociale costituiscono il leitmotiv delle sue liriche. La laurea in Filosofia, del 1946, influenzò molto la sua produzione poetica, secondo Giannone. Il richiamo a Leopardi, spesso citato nelle sue poesie, è a quanto egli apprese dal suo professore di tesi, Cesare Luporini, che con il suo Leopardi progressivo, del 1947, riuscì, assieme a Walter Binni e Sebastiano Timpanaro, a modificare non poco la prospettiva sulla sua poetica. Inoltre, la rappresentazione della morte, nel poeta magliese, ricorda l’idea di morte presente in Heidegger, ovvero essa è pensata come dimensione «autentica» dell’«esserci». Nelle poesie di De Donno si intravede quindi, da un lato, il filone cosmico di poeti quali Leopardi, Pascoli o Montale e, dall’altro, il rifiuto di conforti ultraterreni che abbiano anche la sembianza di vuoti lamenti. Comunque, da un assoluto nichilismo che caratterizza la prima raccolta, si passa, nella seconda, ad “un vitalismo nuovo, privo però sempre di una prospettiva teologica e inesplicabile per la mente umana”, spiega Giannone. “A una concezione così totalmente negativa fa riscontro una materia poetica estremamente ricca, vitale, che sembra contraddire almeno in parte quegli assunti”.
In Il ‘paese’ fisico e metafisico nei versi di Nicola G. De Donno, Maria Teresa Pano si sofferma su Paese, opera intermedia nella produzione artistica di De Donno, ma in linea di continuità in merito ad alcuni temi quali l’io, il palazzo e il paese. Composta da 69 sonetti, questa opera è suddivisibile in quattro parti: la prima parte riguarda i costumi del paese (25 composizioni); la seconda parte riguarda i racconti autobiografici vissuti da un uomo defunto (9 Pitaffi); la terza parte riguarda alcuni personaggi della Bibbia e dei Vangeli (5 sonetti); l’ultima parte è dedicata ai paesaggi e alle stagioni del Salento. In gran parte sono poesie autobiografiche. Pano afferma come i temi trattati da De Donno fossero influenzati prevalentemente dalla sua formazione letteraria, e come questa, unita alla conoscenza del dialetto, gli avesse consentito di dare alle sue poesie un senso profondo sia nel contenuto che nella forma. La scelta del dialetto costituì poi, per De Donno, la possibilità di attuare una contestazione antiaccademica, e al contempo una possibilità di ricerca di “autenticità” e di “verità” da riversare nella sua opera. Così il paesaggio, lungi dall’essere un locus amoenus proprio degli idilli, rappresenta per lui la possibilità di ritrovare “la propria geografia interiore, costruendo un ambiente fisico che sia il riflesso del proprio io, dei propri sentimenti”.
Il saggio successivo, Dall’io al noi: l’epos dell’umile nella poesia di Nicola G. De Donno, è firmato da Walter Vergallo, il quale sottolinea come vi sia dentro alla poesia del De Donno una chiara percezione del «noi» che si distingueva dall’ «io», dal «tu» e dall’«egli», ovvero che si distingueva dall’io che «duetta con il tu» oppure da quel «tu» che assumeva la veste di un «egli», oggettivando il «tu» e rendendolo personaggio. De Donno optò nello scrivere i suoi poemetti per il “noi”, con versi lunghi e con significati e contenuti civici. Al poemetto alcune volte poi egli sostituì il sonetto. Il «noi» per De Donno fu quindi rappresentativo di un momento collettivo o di un evento o luogo altro da sé, con declinazioni da gesta epiche. Le categorie interpretative che De Donno usò, per Vergallo, sono quelle: dell’umile come principio poetico, come sistema dal basso, del quotidiano e dell’antieroico; di humus come terra; di epos come leggenda; di epos dell’umile che diviene un umanesimo non autoreferenziale, ma aperto all’Altro, che sia singolo o mondo. Dalle poesie di De Donno si comprende anche come egli avrebbe voluto che dal pensiero scaturisse un’azione e non un momento di pura spiritualità, per cui da ogni percezione particolare della realtà, egli avrebbe voluto che si desse vita ad una dialettica, tra intuizione e intelletto, per dare forma ad un’azione etica e di apertura dialogante. Infatti, nell’opera Interpretazione di Pascal, De Donno propose una conoscenza che non fosse razionale, ma che fosse «di volta in volta “finesse”, “amour”, coeur”, instinct” [..], “inspiratoon” e “foi”», cioè il «fondersi dell’apporto del cuore con quello della ragione in un conoscere unitario».
In Epica della «genticedda». La guerra de Utrantu di Nicola G. De Donno, Simone Giorgino sottolinea come De Donno si possa considerare un classico. Egli infatti è stato inserito nelle antologie sia di Chiesa che di Tesio, nel 1984, di Brevini nel 1987, di Spagnoletti e Vivaldi nel 1991 e di Dell’Arco e Pasolini del 1952. Secondo Giorgino, De Donno può essere collocato all’interno di un filone poetico, che fa uso della lingua dialettale come possibile forma di «appaesamento» (Franco Brevini), da contrapporre alla letteratura nazionale, considerata massificata e massificatrice. Quella del dialetto è per De Donno una scelta estetica (lingua integra), ma anche ideologica (identità culturale). Non a caso Donato Valli ha sostenuto che De Donno fece “di un’operazione letteraria e poetica un’operazione anche di cultura e civiltà”. In Guerra de Utrantu, De Donno descrisse l’assedio di Otranto del 1480 da parte dell’esercito turco guidato dal generale Ahmed Pascia. L’assedio durò oltre un anno e la rappresentazione di quest’evento assunse un certo rilievo solo nel ‘900, peraltro in veste di epica sociale, nazionale e religiosa, ciò in diversi autori, quali Giuseppe De Dominicis (Capitano Black) con Li Martiri d’Otranto del 1902, Maria Corti, nel 1962, Carmelo Bene, nel 1966. In De Donno quest’evento fu descritto prevalentemente come forma di resistenza portata avanti «dalla povera gente ricca solo di ideali civili e religiosi”, secondo la definizione di Valli. Contro l’invasione dei turchi vi fu la resistenza da parte della massa senza nome né volto, la povera gente a cui De Donno si sentiva devoto. Nella sua poesia prevale infatti l’immaginario della “genticedda”, ossia quegli umili che hanno fatto la storia al pari dei grandi protagonisti, nella visione rivendicazionista del magliese. De Donno usò, in queste poesie, un linguaggio satirico proprio per convogliare una percezione della realtà che si contrapponesse a quella degli storici e letterati “ufficiali”, che descrivevano solo le gesta dei grandi eroi, bollando come “marxisti” coloro i quali non si allineavano a tale visione della storia.
La guerra fu un tema ricorrente per De Donno, egli ne svolse un’analisi dettagliata con il supporto della lingua dialettale, che usò prevalentemente come forma di «ribellione antiaccademica e avanguardista» e come «presa di coscienza morale e politica». La guerra guerra (1987) e Lu Nicola va lla guerra (1994) sono due testi che parlano di guerra, analizzati da Fabio D’Astore in La ‘guerra ‘ di Nicola: due raccolte di De Donno. Il primo libro, formato da nove sonetti e da 45 quarantine di ottonari, per un totale di 323 versi, racconta della guerra nazionalista come esperienza infausta e priva di senso per gli uomini che vi devono prendere parte, perché succubi di voleri superiori; nel secondo libro, formato da 1871 versi, raccolti in 33 lasse di varia lunghezza, la guerra viene raccontata come particolare compreso nella più grande e alta Storia. Il primo libro, che ha una forte valenza autobiografica, in quanto De Donno partecipò alla Grande Guerra, contiene poesie che hanno un significativo portato ideologico ed esistenziale. De Donno descrive la guerra come condizione umana e come condizione storica nel contempo. Gli eventi particolari sono inseriti in una trama più vasta. Importante, il valore della memoria, soprattutto come monito per le future generazioni che non abbiano a vivere le medesime esperienze di guerra e di distruzioni da lui vissute.
Nell’intervento successivo, Ricordando Nicola De Donno tra dialetto e cose patrie, Vittorio Zacchino rievoca la sua collaborazione, durata circa 40 anni, con il poeta De Donno, avendo avuto entrambi gli stessi interessi, prima per la storia risorgimentale e poi per altri eventi storici, di rilevante importanza per il Salento, come la presa di Otranto. In Poeti Dialettali Pugliesi, del 1972, formato da 199 sonetti, De Donno mise in discussione il potere altisonante e ridondante del potere istituzionalizzato e con questo testo iniziò anche la sprovincializzazione del dialetto con l’obiettivo di innalzarlo ad un sapere dalla rispettabilità letteraria. Insieme, Zacchino e De Donno, si occuparono anche di racconti popolari e proverbi e di studi storici e sui dialetti. In L’inautentico Galateo di Benedetto Croce, De Donno contestò la posizione di critica che Benedetto Croce ebbe nei confronti del De Ferrariis, accusato da Croce di viltà nei confronti del viceregno spagnolo. Altri studi sul Galateo furono svolti dal 1978 al 1988. Ma la critica contro le istituzioni della Chiesa e del Palazzo, si fece feroce in La Guerra di Utrantu, in cui egli denunciò come le istituzioni statali e ecclesiastiche usassero il sangue dei martiri per la salvaguardia del loro status quo. Quindi ancora una storia matrigna e traditrice verso l’umile, di allora come di oggi, è quella che, con consonanza di accenti, viene messa in risalto da Zacchino. Questa posizione di denuncia si manifestò, in De Donno, anche nel suo accorato invito, che evidentemente Zacchino fece proprio, a stare lontano dai partiti e dalle sedi della politica politicante. Di rilevante importanza, secondo l’estensore dell’articolo, è il suo scritto su La poesia dialettale di Giuseppe Susanna, poeta di inizio novecento, i cui temi, quali l’etica sociale e l’impegno civile, furono cari a De Donno.
Scrivere il dialetto: lo stile e la tecnica esemplare di N.G. De Donno, di Antonio Romano, è un saggio che interroga la forma di scrittura di De Donno e la sua ricerca linguistica, ponendola a confronto con quella di un altro poeta dialettale, Pietro Gatti. In entrambi si può denotare, nonostante le loro chiare differenze, un limpido tentativo di creare una lingua dialettale, ovvero di rendere convenzionali, nella forma scritta, forme dialettali tramandate oralmente. Questo esercizio di scrittura di De Donno si attuò con una pluralità di lavori editoriali e massimamente nell’utilizzo della lingua dialettale in poesia. Non meno importanti furono i suoi contributi di studioso. La diversificazione tra forma e contenuto creativo fu un rovello critico per De Donno, che ne scrisse in Palore (1988-1998). Il suo era cioè un esemplare tentativo di rendere particolarmente comprensibile la trascrizione dei suoi sentimenti attraverso una scrittura dialettale che fosse altamente formalizzata e codificata, ovvero attraverso la definizione di convenzioni grafiche elementari o l’utilizzazione di accentazioni per rendere più chiare le sonorità della parola.
Nella sezione delle Testimonianze del libro, compare quella dell’editrice Anna Grazia D’Oria, Dialetto di cultura e tensione morale, in cui la studiosa pone in rilievo l’etica con la quale il poeta De Donno scrisse le sue poesie, ovvero il tentativo molto ben riuscito del filosofo salentino di ridare e descrivere la multipla forma del quotidiano che lo circondava. Ciò con un linguaggio dialettale satirico, chiaro, essenziale e disincantato, teso a riflettere l’evoluzione della società allargata. Una società che De Donno decise di vivere appieno, rifiutando un percorso di ricerca a Pisa dove si era brillantemente laureato, per immergersi invece in quel Salento così tanto depauperato delle sue migliori menti. Avendo come punto di riferimento Fernand Braudel, egli continuò a descrivere il reale, partendo dalla propria esperienza individuale. Quindi comparvero nella sua poesia le relazioni sociali intessute nel quotidiano, la descrizione dell’esistenza concreta dei singoli e delle istituzioni, le microstorie del suo universo, i fatti minimi quotidiani. Creò neologismi e usò una lingua antica, il dialetto, per affermare valori universali, validi anche per le future generazioni. La sua era una poesia civile, morale e di solidarietà, di denuncia e di riaffermazione di autenticità culturale. Egli fu il poeta degli umili. Particolarmente meritorio fu, secondo la D’Oria, il suo tentativo di innalzare il livello qualitativo del dialetto usato, codificandolo, normandolo, al fine di renderlo una lingua autonoma rispetto all’italiano, per dargli cioè una propria dignità, contrapponendosi così all’omologazione linguistica poetica e nazionale.
Anche Maria Rita Bozzetti offre una testimonianza, In ricordo del Maestro, ripercorrendo il suo rapporto con De Donno e rivelando come i loro incontri fossero per lei carichi di rilevanza per gli insegnamenti appresi. Maestro coscienzioso, etico, profondamente ligio, De Donno le insegnò la grammatica della poesia, consentendole di divenire e sentirsi essa stessa poetessa. Le insegnò come la poesia fosse un lungo lavoro di definizione e di ridefinizione di ciò che era stato solo intuito e pensato, e di come la codificazione del pensiero in parole scritte non potesse avere valore se non dopo un’attenta limatura con la quale suggellare i pensieri e le percezioni della realtà. La Bozzetti con lui pubblicò il suo primo libro di poesie: Polvere di giorni, nel 1992.
Il volume si chiude con l’Indice dei nomi. Non può mancare un plauso al meritorio lavoro compiuto.
[Recensione a AA. VV., LA POESIA DIALETTALE DI NICOLA G. DE DONNO. ATTI DELLA GIORNATA DI STUDI. MAGLIE, LECCE, 18 APRILE 2015, A CURA DI ANTONIO LUCIO GIANNONE, LECCE, MILELLA EDITORE, 2016, PP. 226 ne
“L’Idomeneo” n. 30 (2020) – La via dei libri. Sabatino de Ursis [熊 三 拔] e le contaminazioni culturali tra Salento e Cina nei secc. XVI-XVII].