Scritti storici galatinesi di Michele Romano

“Lo sviluppo dei fabbricati non avviene solo sulle macerie delle vecchie strutture abbattute perché ormai non consentanee allo status che la ricchezza della vite ha apportato tra il ceto “proprietario”. La cultura dell’abitazione come affermazione di un benessere raggiunto, si localizza tendenzialmente a ridosso di Piazza Dante Alighieri, distante poche centinaia di metri dalla stazione ferroviaria alla quale – verso la metà degli anni ottanta – sarà collegata da un viale realizzato proprio per permettere il collegamento diretto, e contigua alla chiesa madre dei SS. Pietro e Paolo ed alla omonima piazza, sempre più centrali nella vita cittadina. L’insediamento urbano continua sul versante nord occidentale della città, in cui si definiscono in una nuova dimensione urbana ed elitaria, le relazioni spaziali tra il simbolo delle velleità economiche, la ferrovia, ed il caposaldo della tradizione, la religiosità. Negli spazi residui degli orti e dei giardini abbandonati nella corsa alla vignetazione, frapposti tra i due “elementi”, la “nuova borghesia”, che non trova più aree sufficienti all’edificazione nell’antico e caotico nucleo del Comune, pone dinanzi al popolo, insediato nel vecchio borgo, il suo palazzo signorile, metafora di un “potere” che l’immaginario collettivo coglie spazialmente tra il laico e il divino, consacrazione di una superiorità sociale da ammirare e da temere” (pp. 125-126).

L’importanza della citazione scuserà la sua lunghezza. In realtà, qui Romano traccia non solo le linee essenziali del nuovo spazio urbano, intorno al quale si andrà aprendo a raggiera la città novecentesca e post-novecentesca, ma anche delinea le coordinate della cultura cittadina, stretta tra una dimensione religiosa e una laica, tra conservazione e sviluppo, e simboleggiata bene dall’edilizia sacra e civile del centro urbano.

La tesi si correda di due utili appendici, nelle quali il lettore potrà apprendere i nomi di quanti hanno amministrato il Comune di Galatina nel trentennio postunitario. Nella prima, in particolare, Romano riporta l’Elenco degli assessori del Comune di Galatina. Elezioni dal 7 novembre 1861 al 7 settembre 1888; nella seconda, l’Elenco dei consiglieri del Comune di Galatina. Elezioni amministrative dal 26 maggio 1861 al 24 giugno 1888.

Gran parte della tesi di laurea viene riproposta da Romano in un lungo articolo per il “Bollettino Storico di Terra d’Otranto”, n. 5, 1995, pp. 117-194 col titolo Ottocento galatinese: riflessioni, ipotesi, vicende. Ma già qui assistiamo ad un ampliamento dei confini cronologici del lavoro: non più solo il trentennio postunitario, bensì slitta il “terminus a quo della ricerca sino a comprendere gli anni dell’esperienza napoleonica” (p. 120) durante i quali “la distinzione in classi dei decurioni scompare dalle carte amministrative”. La “trasformazione di carattere epocale simboleggiata dalla svolta francese”, se annulla la differenza nominale tra nobili, artieri e contadini rilevata in un documento del 5 maggio 1794, “è anche l’unica nota diversa e innovativa per l’amministrazione del Comune, che, rimanendo in buona sostanza appannaggio degli esponenti delle famiglie di sempre, in una fumosa atmosfera di antiche consuetudini, stempera fatti di non poco conto” (p. 136). Infatti, “la composizione del decurionato e poi del consiglio comunale di Galatina, dal 1794 almeno fino al 1876, è sostanzialmente determinata dal rimescolamento degli stessi nomi” (p. 138). L’immobilismo cittadino è tale che si fa fatica a rinvenire “processi di mobilità sociale”. La classe dirigente sembra essere invischiata dall’ “identificazione, all’interno dell’élite galatinese, tra famiglia e patrimonio o meglio, in questo caso, tra famiglia e terra” (p. 140). Galatina appare afflitta dall’usura e dalla mancanza di un’organizzazione del credito “almeno fino al 1887, anno di fondazione della Banca Popolare Cooperativa” (p. 141) che, se pone un limite certo alle speculazioni usurarie, non si sa bene poi fino a che punto abbia costituito un volano per la locale economia, se cioè “abbia fatto affluire capitali nelle campagne, o invece, col rastrellamento del piccolo risparmio, abbia avviato la ricchezza, così sottratta, verso un tipo di investimento tradizionale ed esterno” (p. 130).

In questo articolo si sposta anche il terminus ad quem della ricerca di Romano, poiché egli considera il trend della vignetazione nel “cinquantennio successivo” agli anni Ottanta dell’Ottocento, rinvenendo un “ridimensionamento dei vigneti galatinesi” dovuto alle “mutate condizioni di commerciabilità a livello internazionale e nazionale” del prodotto: “si passerà infatti dai 2720 ettari del primo ventennio postunitario, ai 2000 del 1912 ed i 981 degli anni trenta del XX secolo” (p. 128). Sarà la fine della civiltà galatinese della “vignetazione” e l’inizio di un’altra storia, legata alla produzione del tabacco.

Cinque anni dopo Romano dà alle stampe un altro articolo dal titolo Antonio Vallone (1858-1925): un deputato meridionale nell’Italia liberale. La politica, gli e i (“Itinerari di ricerca storica”, XII-XV – 1998-2000, pp. 145-196), avvertendo nella nota 1 di p. 147 che “il lavoro che presento in queste pagine s’inserisce in una monografia sui Vallone di prossima pubblicazione>>, monografia che costituisce la tesi del suo dottorato in Storia economico-sociale e religiosa dell’Europa (tutor: Anna Lucia Denitto) discussa nel 1998 presso l’Università degli studi di Bari.

Nell’articolo citato Romano pone “al centro dell’analisi l’azione sociale dell’individuo per poi giungere alla forma politica organizzata” (p. 146). A questo fine, “accanto alle fonti oggettivanti”, archivi comunali, notarili, di stato, eccetera, “hanno assunto fondamentale importanza le fonti biografiche, individualizzanti, i repertori dei cosiddetti life documents (soprattutto le lettere, documenti prevalentemente individuali)”. (p. 146), che Romano ha potuto studiare nell’Archivio Vallone di Galatina. Di Antonio Vallone è passata in rassegna la vita, dalla prima formazione professionale (lauree in Ingegneria e Fisica), all’educazione politica (Guglielmo Oberdan, Matteo Renato Imbriani, Pietro Siciliani) alla carriera politica, indagata “su due piani: uno pubblico e uno privato: da una parte la propaganda, la diffusione dei programmi e delle idee (…); dall’altra le manovre per organizzare le sue campagne elettorali, le strategie delle alleanze, le reti di relazioni personali (…)” (pp. 149-150). Il Vallone, eletto per la prima volta nella XXI legislatura (1900-1902), pur animato da forti idealità (il taglio delle spese militari, a favore del divorzio, contro l’insegnamento religioso nelle scuole, contro il colonialismo, ecc.) non poté sottrarsi alla “consuetudine” del tempo:

“il candidato, una volta ottenuta la carica di deputato, diveniva l’anello centrale di una catena che dall’elettorato locale giungeva alle autorità governative. Da una parte, dunque, il deputato cercava i favori del ministro, al quale garantiva in cambio l’appoggio in Parlamento, dall’altra gli elettori locali, direttamente o per mezzo dei “grandi elettori”, chiedevano al deputato di soddisfare le loro richieste, e in cambio gli offrivano la rielezione.

Il Vallone non poté fare altrimenti…” (p. 168),

come testimoniano le centinaia di lettere a lui indirizzate. Era la pratica della “raccomandazione”, di cui ancor oggi non cessiamo di lamentare la dannosità e che anche allora era consustanziale all’esercizio della funzione parlamentare. Va da sé che, se era usuale questa pratica a favore degli elettori, a maggior ragione Antonio Vallone, avvalendosi della sua funzione, doveva favorire se stesso e la sua famiglia nella “riconversione su larga scala a favore del fico e della vite” (p. 178).

“In altri termini” scrive Romano, “l’esperienza politica di Antonio Vallone, oltre a essere il portato delle sue convinzioni ideologiche e della sua formazione culturale, fu anche il riflesso del processo di consolidamento del successo economico e agricolo-imprenditoriale che egli stesso e la sua famiglia nel senso più largo, a partire dalla fine del XIX secolo, stavano portando avanti con la realizzazione di una decisiva svolta nelle forme di gestione e nella destinazione colturale delle proprietà rurali…” (p. 177-178).

Romano passa in rassegna tutte le campagne elettorali che videro impegnato, con alterne fortune, Antonio Vallone, dagli scontri con il magliese De Donno prima e Tamborino poi, fino all’ultima legislatura, la XXVI del 1921-23, dopo la quale Vallone si ritirò a Galatina, morendovi due anni dopo (1925).

Ma è bene rileggere le pagine dedicate ad Antonio Vallone inserite nel loro contesto, la Storia di una famiglia borghese. I Vallone di Galatina (secc. XVII-XX) citata all’inizio di questa recensione, percomprendere a fondo da quali lontane origini sia nato l’enorme consenso politico che circondò a Galatina il ”partitone” di Antonio Vallone.

Come da titolo, in questo libro assistiamo, rispetto al primo lavoro di Romano, ad un restringimento del campo d’indagine, la “famiglia come oggetto d’analisi storica” (p. 9) e a un allargamento dei limiti cronologici della ricerca: “… dal XVII [secolo] al primo trentennio del XX secolo” (p. 13). L’autore dichiara che studierà la famiglia Vallone seguendo “tre piani tematici, tra loro sovrapposti e interconnessi, relativi all’economia, alle professioni e alla politica” (p. 13). E tuttavia Romano, avvalendosi delle precedenti ricerche, ricostruisce tutto il “microcosmo economico-sociale di Galatina” (p. 41), nel quale si snoda quella che potremmo definire l’epopea della famiglia Vallone: dalla “originaria appartenenza dei Vallone al patriziato giovinazzese” (p. 31), attraverso un lungo periodo di decadenza economica durante il quale i Vallone trasferiti a Galatina sono annoverati tra i bracciali (termine col quale si designa un ceto che, “pur individuando una tra le più basse tra le qualifiche professionali, non sempre si collocava tra le fasce di reddito più povere” (p. 41)), cui segue il passaggio agli inizi dell’ ’800 allo status di ”negozianti” in grado di prestare denaro a fini anche usurari, fino all’accumulo di un patrimonio terriero assai ingente, secondo “una logica di concentrazione della proprietà nelle aree adiacenti all’agro galatinese” (p. 86), che “rappresentava un elemento di distinzione sociale tanto più valido ed efficace quanto più esso era visibile alla comunità a cui appartenevano” (p. 87). La liquidità derivante da questa “strategia d’ascesa sociale” (p. 88) favorisce “le nuove possibilità di accesso al mercato della terra, intervenute con la vendita dei beni dell’asse ecclesiastico incamerati dal demanio nazionale per effetto delle leggi del 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867” (p. 89). Ma fu la differenziazione delle attività economiche, “produzione e commercializzazione agricola, il credito a privati e la produzione e commercializzazione dei pellami” che determinò “la capacità di tenuta economica dei Vallone durante la fase di bassa congiuntura economica” (p. 102) dell’ultimo venticinquennio del XIX secolo. Intanto, dalla metà del secolo la famiglia Vallone si era venuta affermando anche nel campo delle professioni, a partire da Nicola, anatomo-patologo, morto prematuramente nel 1870, con cui si inaugura la serie dei professionisti di casa Vallone: farmacisti, medici, professori universitari. Era quello che serviva alla famiglia borghese per avere “uno status, cioè una trama di elementi di identità che la rendevano socialmente visibile e riconoscibile” (p. 137). Gli elementi distintivi della classe dirigente italiana otto-novecentesca ci sono tutti: prestigio sociale e ricchezza materiale. Questo spiega a sufficienza il consenso politico che, sin dai tempi dell’Unità d’Italia (il già citato Nicola la sera del 21 ottobre 1860 “riuscì a convincere dell’importanza del plebiscito gran parte della popolazione radunatasi nella piazza centrale di Galatina” (p. 144)), ebbe la famiglia Vallone, e spiega perché in questo “ambito a Galatina i Vallone, dalla fine dell’Ottocento, non avrebbero avuto rivali” (p. 141). Diventa ora più chiaro, direi necessario, lo straordinario successo politico di Antonio Vallone, che si situa all’apice di un trend secolare, nel quale si è fatta strada la nuova classe dirigente dell’Italia liberale. Nessuna meraviglia, dunque, che un fratello di Antonio Vallone, Vito, all’avvento del fascismo, non esiti a schierarsi dalla parte del vincitore: “L’adesione di Vito Vallone al fascismo fu entusiastica…” (p. 218) scrive Romano. Contemporaneamente, nel 1925 nasceva la “Banca Fratelli Vallone fu Vincenzo”, il cui ruolo nello sviluppo del territorio, secondo Romano, rimane alquanto incerto. Anche in questo caso, come già si disse a proposito della Banca Popolare Cooperativa fondata nel 1887, la banca rastrella il denaro dei risparmiatori, ma non lo reinveste nelle attività produttive, bensì in “beni più sicuri, come gli investimenti immobiliari e i titoli di Stato” oppure per finanziare “le attività economico-imprenditoriali dei Vallone” (p. 232). Sempre da quest’epoca data la riconversione delle colture agricole. Tramontata la “vignetazione” che aveva favorito l’ascesa dei Vallone, la famiglia sceglie la più redditizia coltivazione dei tabacchi orientali (pp. 232-249), mentre l’attività vinicola cambia radicalmente. Mentre in passato i Vallone “avevano dimostrato… di essere interessati piuttosto alla massificazione delle rese ed alla produzione di vino da taglio decaratterizzato”, negli anni venti, invece, tendono “alla realizzazione di “tipi stabili”, cioè di un prodotto con specifiche qualità>” (p. 250), ed è questa la ragione del loro successo sul mercato nazionale.

Romano cessa di studiare la famiglia Vallone alla fine del primo trentennio del Novecento, quando essa è nel pieno della sua ricchezza, del suo prestigio professionale (non si dimentichi la “Casa di Cura F.lli Vallone fu Vincenzo” a Lecce nei primi anni trenta) e politico. Tra le ragioni che ne spiegano l’ascesa, Romano annovera la capacità imprenditoriale dei Vallone, la determinazione a non guardare alla loro condizione di proprietari “secondo un’ottica redditiera” (p. 261): “Essi considerarono senz’altro il patrimonio terriero un potente elemento di distinzione sociale, ma anche il frutto del sacrificio e del duro lavoro di intere generazioni della famiglia…” (p. 261). Il lavoro, la famiglia, la capacità imprenditoriale sono le ragioni che spiegano il successo della famiglia Vallone. L’albero genealogico posto all’inizio del libro (pp. 16-17), percorso ramo per ramo, a partire da quell’Angelo battezzato nel 1583 e venuto a Galatina nei primi anni del Seicento, fino ai figli di Vincenzo nel Novecento, appare come il compendio grafico di una vicenda plurisecolare, nella quale la lotta per l’affermazione sociale si è avvalsa di tutte le strategie che potevano essere messe in campo per risultare vincente (come dimenticare l’uso speculativo del patto de rehemendo, cioè di ricompra, da parte di Serafino poco oltre la metà del XVIII secolo?). La storia dei Vallone di Michele Romano è la storia di una competizione e di un successo. Dispiace che l’autore abbia interrotto la disamina di questa storia familiare ai primi trent’anni del secolo XX, con poche rapide incursioni negli anni seguenti perlopiù confinate nelle note (si leggano per es. le pp. 212n-213n dedicate a Luigi Vallone, figlio di Antonio). Se il fine di questo studio, pienamente raggiunto, era di “dare un contributo alla comprensione dei processi che interessano le classi dirigenti meridionali” (p. 12), allora resta ancora da studiare un intero settantennio di storia novecentesca, per capire bene come abbiano operato le classi dirigenti meridionali nel corso del secolo, ed in particolare a Galatina i Vallone. Ma questa è storia dei nostri giorni, per la ricostruzione della quale forse è bene attendere che il tempo galantuomo restituisca a uomini e cose il loro autentico significato.

[I Vallone di Galatina (secc. XVII-XX) (recensione a Michele Romano, Storia di una famiglia borghese (I Vallone di Galatina (secc. XVII-XX), Milano, Franco Angeli, 2003), “Il Galatino” di venerdì 27 gennaio 2006, pp. 4-5; poi in Gianluca Virgilio, Scritti cittadini, Edit Santoro, Galatina, 2008, pp. 85-98.]

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