Leggere le memorie di De Giuseppe significa fare un tuffo nella storia dell’Italia repubblicana degli ultimi sessant’anni. Si parte dal periodo florido del secondo dopoguerra, quando tutto sembra possibile e i giovani – non solo quelli rampanti – partecipano alla vita politica perché animati dalle più alte idealità, magari contrapponendosi, anche duramente, per il diverso sentire, ma accomunati dalla volontà di ricostruire l’Italia, di renderla prospera. Era il tempo dei comizi, “se non gli unici, certamente i più efficaci mezzi di propaganda politica” (p. 17). Tutto il primo capitolo è dedicato alla vita politica della provincia di Lecce, la fase per così dire preparatoria, in cui De Giuseppe ricopre l’incarico di segretario provinciale della DC, prima di spiccare il volo verso Roma, eletto senatore a quarantadue anni nel 1972: “Varcai il portone del Senato pochi giorni dopo l’elezione. Era la prima volta, perché avevo avuto gli incontri con i parlamentari leccesi sempre a Montecitorio. All’ingresso fui bloccato da un gigantesco, monumentale, cortese guardaportone. (…) Appreso che ero un senatore appena eletto, che desiderava raggiungere la sede del gruppo della DC, non si scompose, ma ebbe l’accortezza di farmi accompagnare da un commesso più giovane e meno solenne. Compresi il motivo quando mi resi conto che, da solo, non mi sarei districato tra saloni, sale, corridoi e scale per giungere a palazzo Carpegna, ove erano ubicati gli uffici dei gruppi parlamentari. I due palazzi, il Madama e il Carpegna, sono collegati da un ponte coperto, il quale, da una parte ha una fila ininterrotta di busti di protagonisti del Risorgimento e, dall’altra, un’ampia vetrata che dà sul giardino interno nel quale svetta ancora la palma piantata da Crispi nel pieno dell’eccitazione coloniale…” (pp. 53-54). De Giuseppe avrà modo di superare questo senso di estraneità inevitabile in ogni primo approccio ad un luogo che non conosciamo. Problemi impellenti minacciano l’ordine dello Stato e richiedono la massima attenzione e vigilanza: il terrorismo prima di tutto, a partire dal rapimento del giudice Mario Sossi (18 aprile 1974), che inaugura la lunga stagione dei rapimenti e dei delitti politici culminata col rapimento Moro (1978), e poi la strategia della tensione iniziata a piazza Fontana a Milano (1969) e continuata con la strage del treno Italicus (1974) e poi in piazza della Loggia a Brescia (1974) e alla stazione di Bologna (1980). Perché mai accadeva tutto questo nel nostro bel Paese? La logica dei blocchi contrapposti, la guerra fredda, l’inaffidabilità del PCI alle dipendenze dell’URSS spiegano tante cose, ma l’immobilismo politico dei partiti di governo, in primis della DC, in che misura deve essere attribuito ai suoi dirigenti? Insomma, se la politica estera filoatlantica della DC ha garantito all’Italia un regime di libertà e la prosperità economica per un quarantennio, quale costo l’Italia ha dovuto pagare per tutto questo? “La DC”, dice De Giuseppe, “era beneficiaria, ma non responsabile della lunga gestione del potere” (p. 94), il che è come dire che gli uomini della DC governavano perché nessun altro poteva farlo al loro posto, e il motivo di ciò sta, secondo De Giuseppe, in cause esterne alla volontà di quegli uomini, in ragioni di politica estera dalle quali non fu possibile liberarsi, almeno per un cinquantennio dopo la fine della seconda guerra. In realtà, l’Italia del lungo dopoguerra era sotto tutela, in stato di libertà vigilata, e questo portò alla cristallizzazione della politica e all’incomunicabilità degli schieramenti, alla gerontocrazia, e a tutti i mali che hanno afflitto la Prima Repubblica fino a Tangentopoli. La DC era garante dello status quo, cui era possibile derogare con piccole, misurate aperture, l’apertura a sinistra nei confronti dei socialisti, il pentapartito. In mezzo, la solidarietà nazionale col PCI, stroncata dall’assassinio di Aldo Moro. Togliere il gesso all’Italia, nel 1978, significava rischiare un po’ troppo, meglio ripetere vecchi esperimenti, a costo che tutto prima o poi precipitasse. Ed allora, diventava necessario aprire a Bettino Craxi, e subire la sua politica: “…il leader socialista non rinunziò né alla prospettiva dell’unità a sinistra, che nelle condizioni italiane era puramente velleitaria, né all’ipotesi di realizzarla attraverso un sostanziale incremento di voti socialisti, comunque ottenuti”. Male minore era lasciare al PCI il controllo degli enti locali, secondo un’ambigua spartizione del potere, che lungi dal ricomporre fratture, le riproponeva, aggravandole, legislatura dopo legislatura. Sicché, data la portata dei problemi, le battaglie di De Giuseppe contro il correntismo, per l’incompatibilità tra mandato elettorale ed incarico di governo (un parlamentare non può essere ministro), contro il carrierismo che portava a una “lenta trasformazione del Partito in una società per azioni” (p. 70), queste battaglie, seppur sacrosante, rischiavano, come di fatto accadde, di curare il sintomo e non la causa del male, di non mutare la sostanza del problema, consistente nell’impossibilità di fare politica in piena libertà, assicurando al Paese l’alternanza e il periodico rinnovamento della classe dirigente. Caduto il comunismo, dopo la trasformazione del PCI in PDS, per De Giuseppe (e non solo) ancora la scelta socialdemocratica del maggior partito della sinistra italiana non è stata fatta, ancora occorrono delle credenziali per andare al governo. Dovranno pensarci i giudici a far fuori la vecchia classe dirigente, a dare il colpo di clava sulla testa del vecchio pentapartito. De Giuseppe segue passo passo le ultime vicende del suo partito, ricavandone la chiara sensazione della sua agonia e morte. Eccolo fare il suo ingresso per l’ultima volta nella sede romana della DC di Piazza del Gesù: “Varcata la soglia del palazzo di Piazza del Gesù, l’insolito silenzio mi riportò alla realtà. Nelle stanze, prima piene di animazione tanto chiassosa da infastidire, i telefoni erano ora muti ed i corridoi vuoti. Molti impiegati erano stati licenziati ed i pochi in servizio prevedevano sorte eguale per loro. Nell’anticamera, rividi una segretaria che conoscevo da quarant’anni: rispondeva alle rare telefonate ed attendeva gli improbabili visitatori. Non c’era alcuno ed entrai subito nell’ufficio di Martinazzoli. Accecato dal fumo, che ammorbava la stanza, ebbi difficoltà a scovare Mino, sprofondato in una poltrona…” (p. 372). Il Partito è finito e De Giuseppe non ha più motivo per ricandidarsi nella nuova formazione che sta nascendo. La storia alla quale egli appartiene è un’altra ed è inesorabilmente finita. De Giuseppe sa che molti errori sono stati commessi, ma sa anche che la DC ha dato un grande contributo alla crescita del Paese. Uscito dalla stanza di Martinazzoli, entra nella sala della Direzione: “In quella sala… si erano pure perdute occasioni preziose e sottovalutati importanti problemi, ma erano state prese pure decisioni che avevano cambiato in pochi anni l’Italia, inserendola stabilmente nel consenso internazionale, facendo della collaborazione europea la risposta a secoli di guerra, consolidando la democrazia, assicurando un prodigioso sviluppo economico, sociale, culturale che aveva trasformato il Paese, da agricolo, in uno degli otto maggiormente industrializzati del mondo…” (pp. 372-373).
Nella pagina del senatore di Maglie si sente tutto l’orgoglio di aver fatto parte di una formazione politica che ha scritto la storia italiana degli ultimi quarant’anni – ben documentata anche nella ricca Appendice finale -, un orgoglio che emerge in molti altri luoghi di queste memorie e sempre teso a contrastare ogni critica, a cui le vicende di Tangentopoli avevano dato la stura. Non è la rivendicazione della propria integrità morale e politica che interessa a De Giuseppe, essa è data per scontata poiché nessuno l’ha mai messa in discussione. Interessa rivendicare il ruolo storico del Partito, che nessuna inchiesta di giudice potrebbe offuscare. Si capisce pienamente pertanto la conclusione, che coincide con la motivazione dell’intero libro di memorie: “Mi proposi di contribuire perché le critiche, che sembravano soffocare il Partito e misconoscere il ruolo avuto nella costruzione dell’Italia moderna, non facessero dimenticare la storia né appannare la verità” (p. 373). Ecco dunque perché Giorgio De Giuseppe ha scritto le sue memorie politiche, per rivendicare la verità della storia, cioè la bontà del suo Partito, con la P maiuscola. Del resto, già nella Premessa, De Giuseppe aveva messo le mani avanti: “La scomparsa del Partito non è stata, quindi, conseguenza dell’inattualità delle idee, ma della limitatezza degli uomini” (p. 1), a cui sarebbe fin troppo facile ribattere che le idee da sole non esistono, poiché esse camminano soltanto nella testa e coi piedi degli uomini.
Una vita non basta, certo, ma di una vita bisogna accontentarsi. Io sono certo che scritti come questo, in cui sull’onda del ricordo passano esponenti di primo piano e semplici comparse del mondo politico della Prima Repubblica – a questo proposito, utile è l’Indice dei nomi che chiude il volume -, siano necessari allo storico futuro, che nei ricordi dei protagonisti potrà leggere le passioni recondite e le idee più disinteressate, e valutare come effettivamente siano andate le cose. Perciò ora mi piace guardare la foto riportata in quarta di copertina – in coerente contrasto con la prima di copertina che mostra un austero consesso di senatori dell’antica Roma -: l’attempato senatore con la penna in pugno è intento a scrivere, certamente queste memorie, mentre con la mano sinistra non tralascia di reggere, accanto a lui, una paffuta nipotina vestita di rosa che gli guarda la mano, chiedendosi che cosa stia facendo di così importante questo suo nonno che ha vissuto e conosce tante vicende della recente storia d’Italia.
[Memorie politiche di un senatore (recensione a Giorgio De Giuseppe, Una vita non basta. Ricordi politici dell’Italia repubblicana (1953-1994), Congedo Editore, Galatina, 2008), “Il Galatino” di venerdì 30 gennaio 2009, p. 3; poi col titolo Una vita non basta ne “Il Paese Nuovo” di martedì 19 giugno 2009, p. 6.]