di Paolo Vincenti
“…ed il gallo passeggia impettito dentro il nostro
cortile
se la guerra è finita perché ti si annebbia di
pianto
questo giorno d’aprile “
(“Quel giorno d’aprile” – Francesco Guccini)
Non c’è solo la pandemia che quest’anno impedisce le celebrazioni del 25 aprile. Certo, il covid ha dato una spallata, ma questa era già una festa sottotono. Bastava guardare le immagini dei telegiornali negli anni scorsi, per rendersi conto di quanto le celebrazioni del 25 aprile fossero tiepide, a dir poco, in tutta Italia. Mancava il pathos, quell’enfasi che è connaturata nella retorica di certi avvenimenti importanti come questo. Si starà forse perdendo il senso di una festa di popolo, che non è più così sentita come era in passato. Il tempo fa questi scherzi, allontanando dalla memoria certi ricordi, gioiosi o tragici, ne accorcia lo sguardo, ne fa assopire il sentimento. Un po’ in tutti i nostri paesi e città la partecipazione al 25 aprile è ormai debole, si vedono alcune scene davvero tristi di amministratori locali intorno al monumento ai caduti che parlano davanti a quattro, cinque ottantenni e due tre cani randagi. Certo, la democrazia è un valore consolidato, si dirà, la libertà è data per scontata da chi vi è abituato fin dalla nascita, non può concepire cosa significhi la dittatura una generazione che non l’ha sperimentata sulla propria pelle, che non ne ha saggiato il sapore d’amaro, di impotenza, smacco, frustrazione (eppure dall’anno scorso, in seguito alla pandemia, qualcosa che è molto vicino al clima che si respira in una dittatura è stato provato dal nostro come da tutti i paesi democratici, anche se le misure di restrizione delle libertà personali sono causate da motivi di carattere sanitario e non certo dalla follia di un regime). Un rilassamento del senso civico, l’assenza di una grammatica di valori condivisi nelle nuove generazioni, certamente, forse una certa responsabilità ha anche la scuola perché degli insegnanti e degli educatori dovrebbe essere il compito di tramandare la memoria, di sensibilizzare i giovani. Mi chiedevo, fino a due anni fa, se passando per caso dalla piazza, i ragazzi, notando un piccolo assembramento di gente, non chiedessero poi ai genitori che ci facevano il sindaco con la fascia tricolore e i vigili urbani davanti al sacrario. Avranno ben sollevato lo sguardo per vedere che quella dove stavano passando si chiama proprio Piazza Libertà? Non si saranno incuriositi dalla presenza dei partigiani con la bandiera? Chissà che cosa avranno risposto i loro genitori, sempre che in quel momento non fossero attaccati al telefonino. Magari, come Cetto La Qualunque, gli avranno detto: “come criterio di massima, come sistema di riferimento, come atteggiamento preferenziale, tu fatti i cazzi tuoi!”. Grave cedimento all’oblio, resa alla trascuratezza, all’indifferenza, è non commemorare le date e gli eventi che hanno segnato il faticoso cammino della nostra nazione, della nascita di una coscienza identitaria. “Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente”, diceva Gramsci. Anche se le nuove generazioni sono lontane da quel ricordo, non meno importante è per loro celebrarlo, anzi proprio dal connubio fra immaginazione e memoria il passato acquista più valore, e la conquista della libertà diventa impresa epica, e può continuare ad affascinare giovani e meno giovani. “La libertà”, diceva Calamandrei, “è come l’aria: ti accorgi quanto valga solo quando ti manca”.