T.S.Eliot. Il tempo che distrugge è il tempo che conserva

Quattro quartetti, del 1943 (ma la separata edizione di ogni quartetto è scandita dal 1936 al 1941) modula, dunque, tra tensione armonica e dissonanze, una poliedrica riflessione sul tempo: in dialogo, da sponde formali diverse, con la novecentesca riflessione sul tempo come s’era svolta nella narrazione di Proust e in quella di Joyce. L’evocazione del poeta, simile a un’onda cangiante che ritorna, mostra l’illusorietà della classica distinzione in passato, presente, futuro (questo, sulle tracce del famoso capitolo agostiniano delle Confessioni dedicato al tempo). E osserva la compresenza nel pensiero, nel pensiero-immagine, di quel che è stato e di quel che è, del visibile e dell’attesa, che è attesa di una rivelazione (rivelazione dell’invisibile?). Assenza nella presenza: ma sempre sul fondo di un sentire che è vibrazione del fuggitivo. Tremito per la sparizione. Il dire del poeta non è quello del filosofo, per lui la parola è suono della cosa, accoglimento dell’accaduto, risonanza del visibile: in questo movimento la parola porta con sé anche il dolore, il dolore che nel divenire delle cose permane. Permanenza del dolore: il che sembra contraddire il senso del transitorio con cui il tempo si presenta, si rappresenta. Permanenza del dolore, della morte, della distruzione di corpi animali nel fiume del tempo. Ecco il luogo del testo al quale appartiene il verso che ho scelto (qui nell’originale e nella traduzione di Roberto Sanesi):

People change, and smile: but the agony abides.

Time the destroyer is time the preserver,

Like the river with its cargo of dead negroes, cows

       And chicken coops

The bitter apple and the bite in the apple.

.

La gente cambia, e sorride: ma la sofferenza resta.

Il tempo che distrugge è il tempo che conserva,

Come il fiume, col suo carico di negri morti, di mucche e

            Di gabbie di polli,

La mela amara e il morso della mela.

Se il verso scelto ha una sua unità formale (il titolo di questa rubrica suggeriva tale scelta), nelle composizioni eliotiane la misura classica è sorvegliata da un prosimetro, la libertà si armonizza con le forme della tradizione: il movimento lirico si scioglie in un movimento aforismatico, la dizione affermativa è seguita dall’evocazione visionaria, l’iconicità scenica e prossima di quel che appare si copre col velo di un’interrogazione sul principio e sulla fine. Così alla tensione ragionativa segue la preghiera, alla voce melodica la concretezza delle forme, all’attacco tutto letterario la variazione inattesa (in quella sequenza che comincia con People change risento il baudelairiano Paris change, della poesia Le Cygne, seguito anch’esso da un’avversativa). 

Ma è l’offerta tematica – che, con grande libertà di movimento sonoro, apre il primo dei quartetti – il nucleo forte della riflessione: la compresenza interiore delle figure del tempo, una compresenza che a raggiera si apre su immagini del nostro stare al mondo. È nello spazio di questa compresenza che abitiamo la luce del visibile, e facciamo esperienza di un’intimità con le stagioni:

Time present and time past

Are both perhaps present in time future,

and time future contained in time past.

If all time is eternally present

All time is irredeemable.

What might have been and what has been

Point to one end, which is always present.

Il tempo presente e il tempo passato

Son forse presenti entrambi nel tempo futuro,

E il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.

Se tutto il tempo è eternamente presente

Tutto il tempo è irredimibile.

Ciò che poteva essere e ciò che è stato

Tendono a un solo fine, che è sempre presente.

Quattro quartetti, intitolati ciascuno a un toponimo (un castello, due villaggi, un gruppo di scogli nel mare), si svolgono secondo quell’apertura alla pluralità di registri e di intonazioni che il lettore della più nota composizione di Eliot, La terra desolata, già conosce. La poesia è esperienza del visibile che genera un alone interrogativo, esperienza del rammemorare che cerca di dare presenza al vissuto e al non vissuto, al già stato e al possibile, esperienza dell’immaginare che sospinge il pensiero su quel confine dove la parola si spegne nell’enigma. 

Per restare nella multiforme tessitura dei Quattro quartetti, meditare sul tempo è osservare il dispiegarsi della natura, del nostro stare entro i suoi confini, è seguire il movimento delle stagioni, il loro fiorire e appassire. Ma è anche scrutare il mondo animale e il disporsi del paesaggio sotto i nostri occhi. È meditare sulle virtù teologali e sull’amore, ed è mettersi in ascolto del dialogo con la morte che è respiro della vita. Ma in questo estesissimo ventaglio si è sempre, in quanto soggetti, dislocati fuori da un luogo proprio, e originario, gettati in uno spaesamento in certo senso ontologico: “E dove siete è là dove non siete”. Perché essere creatura vuol dire appartenere a un ordine che è oltre ogni temporale scansione dell’esistente: “In my end is my beginning”, nella mia fine è il mio principio. 

La poesia è parola che accoglie i riverberi di questo inattingibile orizzonte, e fa di questi riverberi il ritmo di una incessante meditazione.

[“Doppiozero” del 17 marzo 2021]

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