Effetti Covid: ecatombe di morti, disgregazione di vivi

I più seri fra specialisti e scienziati, dopo più di un anno, si pongono ancora delle domande, si stringono nelle spalle. Il professor Stefano Nava, direttore di pneumologia e terapia intensiva dell’ospedale Sant’Orsola-Malpighi di Bologna, che peraltro è passato attraverso il contagio e la guarigione personali, dice: “Ne sappiamo ancora poco di questa malattia. E non abbiamo ancora trovato una buona cura”. Avere il Covid – aggiunge – “è come camminare su una lastra di ghiaccio sottile”, “con il Covid non esiste la diagnosi certa”, “in ogni momento si può virare verso il meglio o il peggio”, “il malato ti scappa in un tempo molto più veloce. Un giorno ha parametri da dimissione, quello seguente viene intubato” (Corsera del 9 marzo). Un modo migliore e più chiaro di rendere la pericolosità del Covid davvero non c’è. È un nemico subdolo, capriccioso, incomprensibile. Nevrotico pure lui.

Sui modi del contagio, non ne parliamo. Il virus potrebbe essere dappertutto, tanto che ormai la gente, anche quando è sola in macchina, porta la mascherina, forse se la tiene anche a letto. Siamo diventati tutti fobici.   

L’epidemia parla coi fatti. All’inizio colpiva più i maschi delle donne, gli anziani più dei giovani. Oggi colpisce tutti, perfino i bambini. Finora non ha procurato soltanto morti e danni enormi alle cose, all’economia, alla scuola, alla cultura, allo sport, e per certi aspetti anche alla devozione religiosa, ma ha anche – direi inevitabilmente – alterato i costumi popolari, perfino quelli meno materiali, le abitudini millenarie della gente. Molte chiese stanno chiuse e le vecchiette, le mattiniere beghine, sono solo un ricordo oleografico. Lo si vede specialmente nelle piccole realtà di paese, dove tutti sanno di tutti e niente sfugge a nessuno.

Spesso le parole non bastano a significare l’importanza dei fatti, anche se esse ti chiedono di interrogarti per darti delle risposte, per cercare i significati. Prendiamo l’annuncio dei morti con manifesto. Un particolare all’apparenza insignificante. “Munito dei conforti religiosi e circondato dall’affetto dei suoi cari si è spento…”. Era questa la formula dei manifesti di morto fino a quando non è sopraggiunta l’epidemia da Covid. Quasi non si dava importanza alle parole tanto suonavano ripetitive, convenzionali. Ora, con formula burocratica, il manifesto informa che nell’ospedale di… è venuto a mancare… e avverte di non partecipare ai funerali per evitare dannosi assembramenti ai sensi della legge. Niente conforto religioso, se non quello vissuto intimamente. Niente affetto dei propri cari, se non fuggevoli immagini soggettive nell’attimo del solitario addio. Quando ci sono stati funerali fisicamente partecipati si sono sviluppati focolai di infezione diffusa da far paura.

Da sempre l’accompagno, ovvero la partecipazione della gente al corteo funebre, era stato la misura dell’importanza del personaggio morto, della sua popolarità, della sua autorevolezza ed importanza sociale. A volte per testimoniare la partecipazione popolare si riprendeva il corteo dall’alto e lo si vedeva, il serpentone, fitto e lungo, snodarsi per le vie del paese A misura dell’enorme partecipazione si notava che la testa del corteo aveva raggiunto il cimitero quando ancora la coda si trovava a metà percorso. “Hai visto? Un fiume di gente!”. Quando ad un funerale vi partecipavano quattro gatti era segno che il morto non contava niente, quando non addirittura che era stato in vita un pessimo elemento. Il Covid ha livellato tutti. Non ci sono più persone importanti e meno importanti, più buone e meno buone, più giovani e meno giovani. Ci sono ancora, si capisce! Ma tutti muoiono e vengono funeralizzati e sepolti alla presenza di pochissimi famigliari. Così il senso di comunità, di società, di appartenenza, si è disgregato. Si è perso quel senso di relazione e di affettività che la circostanza della morte rendeva ancora più vivo.

[“Presenza taurisanese”, anno XXXIX n. 4 Aprile 2021, p. 4]

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