In questo regno, a differenza di tutti gli altri regni, tutte le ricchezze appartenevano a sette padroni, a sette sovrani di tutte le terre, di tutti i boschi, di tutti i fiumi, di tutte le greggi, di tutte le macchine delle fabbriche e di tutto quello che in genere si coltiva e cresce, di tutti i frutti della terra, di tutto quello che viene estratto dal sottosuolo e di tutto quello che viene lavorato e trasformato.
Proprio questi sette signori-padroni-sovrani senza corona erano i veri monarchi del regno, invece la regina coronata era una loro arma. Davvero! Come l’ascia del boia! Come le fauci del lupo! Come la lingua biforcuta del serpente! Come il coltello in mano del delinquente! In poche parole, orrenda, feroce, crudele per tutti, la regina era docile, obbediente, assai puntuale ed accurata esecutrice degli ordini dei sette re senza corona.
Erano loro, in nome della regina, ad emanare le leggi, tramite la sua bocca dichiaravano le guerre, condannavano a pene capitali, processavano, graziavano – insomma, facevano di tutto, pensando al proprio tornaconto e per trarre vantaggio.
La regina aveva un’ottima padronanza della spada, mozzava con una sola presa sino a sette teste. Sparava infallibilmente con il moschetto e maneggiava il coltello come un brigante di mare.
Ma la regina disarmata incuteva ancor più orrore. Si toglieva i guanti, l’elmo e gli occhiali scuri da sole. Le fitte setole di cinghiale sulla sua testa si rizzavano da far morire dalla paura, gli occhi iniettati di sangue risplendevano in modo così micidiale e gli artigli si ficcavano nella vittima tanto profondamente, che le forze armate del regno eseguivano l’ordine di “presentare le armi” e tutta la corte cadeva in posizione prostrata.
Il popolo del regno, capace soltanto di lavorare, non conosceva un metodo per liberarsi dalle crudeltà e dai soprusi della regina, dalla schiavitù dei sette re senza corona e viveva di speranze e di preghiere. Ma si fece avanti una buona fata. Sì. Non sembra vero, tuttavia una fata riuscì a sopravvivere in questo spietato regno!
La fata buona consigliò di accostare alla regina, in qualità di cameriera personale, la più bella, più intelligente, più cordiale, più virtuosa ragazza del reame, sostenendo, che questa ragazza avrebbe potuto sconfiggere la regina malvagia.
Non rimase che sperimentare il rimedio. Da lì a poco si svolse un sondaggio dell’opinione pubblica, da cui venne fuori che la più bella, più intelligente, più cordiale, più virtuosa ragazza del reame, altri non era che la figlia di una lavandaia.
Quando la prescelta fu condotta nel castello della regina, tutti si accorsero che dentro il castello cominciò ad arrivare molta più luce, come se vi fosse entrato il sole. Ciò per effetto della lucentezza riflessa dai lunghi capelli dorati della meravigliosa fanciulla. Nessuno aveva mai visto dei capelli più belli!
Non appena la fanciulla alzò le palpebre, a tutti divenne chiaro che nei suoi occhi l’azzurro del cielo e il blu del mare stavano contendendosi il primato della bellezza. Proprio a questo punto ebbe inizio tutto ciò di cui si narra in questa favola. Sette re senza corona capirono subito che il popolo stava cercando di addolcire l’indole feroce della regina e ciò avrebbe potuto contribuire all’indebolimento del loro potere e alla diminuzione dei loro profitti. Perciò i re sussurrarono alla regina: «Maestà, il popolo vi ha mandato questa bella ragazza nel castello, unicamente per far sminuire la vostra bellezza.»
Le parole raggiunsero lo scopo. Quando l’adiratissima regina cominciò a sfilarsi i guanti per strappare con i suoi artigli il cuore della fanciulla, la ragazza dolcemente osservò: «Vostra Maestà, ma chi è stato dei vostri servitori a trascurare sino a tal punto le vostre unghie? Ordini, Sua Grazia, di portare qui le forbicine perché io possa farle subito la manicure.»
La regina rimase di stucco. Nessuno aveva mai parlato con lei in modo così semplice, cordiale e aperto. Benevolmente diede alla ragazza prima la mano sinistra, poi la destra. Non passarono neppure dieci minuti e gli orrendi artigli della regina divennero belle unghie.
«Mia fedele cameriera, brucia adesso questi guanti di pelle d’alce e portami subito tutti i miei anelli.»
«Aspetti, Maestà» – disse la ragazza. «Gli anelli non s’intonerebbero bene con questi abiti da guerriero. Andrebbe molto meglio se lei si togliesse l’elmo.»
Tutta la corte cadde in posizione prostrata. Le forze armate del regno eseguirono la disposizione “presentare le armi”, in quanto nessuno mai fino a questo momento aveva osato parlare alla regina in questa maniera.
La ragazza invece, dopo averlo detto, tolse delicatamente dalla testa della regina il suo pesante elmo e, senza esitare un attimo, lisciò le setole di cinghiale rizzate sulla sua testa. Sotto la mano gentile, le setole della regina si abbassarono docilmente e si fecero pettinare.
«Mia dama d’onore» – disse la regina, rivolgendosi alla ragazza, – «ordina di portarmi subito la mia corona.»
«Oh! Vostra Maestà» – contraddisse la ragazza. «Chissà, se la corona le donerebbe con questi brutti occhiali scuri?»
Nuovamente la corte spaventata cadde in posizione prostrata. Ma la ragazza, dopo aver tolto gli occhiali scuri dal viso della regina, disse: «Sua Grazia, la prego, provi, per cortesia, a guardarmi negli occhi con un po’ di fiducia e benevolenza.»
La regina lo fece. Un’altra volta si ripeté la cosa sorprendente. Il rosso-sangue sparì dal bianco degli occhi di regina, che subito dopo ritornarono nelle orbite. Ma in tutto questo non c’era alcun incantesimo! La ragazza, come tanti altri, sapeva bene che, se avesse dato uno sguardo prolungato con i suoi occhi pieni di bontà, avrebbe sicuramente fatto diventare più buoni quegli occhi tanto cattivi ed arrabbiati. Proprio a quest’infallibile rimedio ricorse l’animosa fanciulla.
In questo modo la figlia di una lavandaia divenne la prima dama d’onore, l’amica-confidente della regina e persona piuttosto influente a corte.
La reggia cominciò ad aprire l’ingresso ai popolani, ai delegati del popolo dai ducati lontani. La regina accondiscendeva all’ascolto delle loro richieste e lamentele; a volte concedeva persino una piccola riduzione dei tributi, balzelli e delle pene corporali.
Tutto ciò portava all’esasperazione i sette re senza corona, che si riunirono per tramare segretamente contro la dama d’onore in erba. Fini malvagi spinsero i re senza corona ad ingaggiare uno spettro che, apparendo nella notte alla regina, calunniava la dama d’onore e il suo fidanzato-minatore.
Si trattò di un vile ed orribile intrigo, secondo cui la giovane dama d’onore avrebbe voluto far morire la regina, usurpare il suo trono, sposare il minatore e farlo diventare primo cancelliere del regno.
L’ascolto dello spettro risvegliò nella regina ogni suo istinto animalesco. Il suoi capelli subito si indurirono e si rizzarono, negli occhi apparve il balenio della rabbia, ripresero a crescere gli artigli. La notte stessa si diresse furtivamente nel parco della reggia, dove la sua dama d’onore si incontrava col fidanzato-minatore.
La regina si arrampicò, come una lince, su un albero e si acquattò su un ramo della sua larga fronda. I minuti dell’attesa passavano molto lentamente. Ma ecco baluginò un’ombra e poi un’altra. E la regina sentì la voce della sua giovanissima dama d’onore.
«Caro» – diceva al minatore – «non so che cosa si può fare per far diventare la nostra regina ancor più buona. Non risparmierei la mia vita per far star meglio il nostro povero popolo.»
Ascoltandola, la regina avvertì che smettevano di crescerle le unghie e gli occhi di iniettarsi di sangue. Così tese l’orecchio per ascoltare quel che avrebbero detto ancora quei due.
«Amor mio» – disse il minatore – «regala alla regina i tuoi morbidi capelli d’oro… Chi ha i capelli morbidi mai può essere malvagio e rabbioso.»
«Caro, ma tu non smetteresti di amarmi?»
«Mio tesoro! Ti amo per come sei, non c’entrano i tuoi capelli. Sii generosa! Il popolo non dimenticherà la tua buon’azione. E, forse, si realizzerà finalmente il suo sogno d’avere regnanti buoni.»
Il giorno dopo la regina si svegliò e non si riconobbe. I soffici capelli d’oro le scendevano dalla testa ai piedi e le mura grigie della torre del Nord si doravano del riflesso della loro luce.
Nello stesso giorno dalla prigione furono liberati quattrocento carcerati. Nello stesso giorno furono diminuiti di un decimo tutti i balzelli e tributi. Nello stesso giorno la regina apparve nel suo castello a testa scoperta, la dama d’onore in erba, invece, si coprì per la prima volta la testa con un grande fazzoletto.
«Non è niente» – decise la dama d’onore – «l’importante è che adesso il mio popolo stia un po’ meglio!»
Ai sette re senza corona stridettero i denti.
Esattamente una settimana più tardi, nella torre del Nord in cui c’era la camera da letto della regina, apparve di nuovo uno spettro, che calunniò nuovamente la dama d’onore in erba.
«La ringrazio» – disse la regina allo spettro e si avviò un’altra volta nel parco della reggia.
E un’altra volta sentì la voce coraggiosa del fidanzato-minatore: «Cara, se vuoi la felicità del tuo popolo, scambia con la regina i tuoi occhi. Così lei vedrà la vita coi tuoi celesti occhi, limpidi e puri.»
La figlia leale, devota al suo popolo, senza pensarci un attimo, diede alla regina i suoi celesti, limpidi occhi puri. Inoltre le diede il delicatissimo colorito della sua pelle, l’impeccabile rotondità delle sue spalle e le sottili, come i rami della betulla, flessibili, incantevoli braccia.
La regina si svegliò bellissima. La dama d’onore si svegliò… Ahi, non parliamone, come era lei al suo risveglio quel mattino, avendo scambiato con la regina gli occhi, il colorito della pelle e la rotondità delle spalle! Sua madre non riconobbe la figlia, ma non disse una sola parola, né versò una lacrima, perché anche lei era una devota figlia del suo popolo e non poteva fare altrimenti che condividere le scelte di sua figlia.
Il mattino che venne la regina vide il mondo con altri occhi, con gli occhi di una figlia di una lavandaia. Si accorse che il suo popolo era scalzo, vestito di cenci ed affamato. Si rese conto che da trentatré misure di grano coltivato, il popolo riceveva soltanto tre misure; che da trentatré cubiti e tre pollici di tela tessuta, al popolo andavano soltanto tre pollici; che da trentatré pecore il popolo tosava per sé soltanto tre pecore. E così era dappertutto e dovunque, di trenta parti si appropriavano i re senza corona e solo tre ne restituivano al popolo e anche questo facevano soltanto per non farlo morire di fame e perché non smettesse di lavorare e produrre i beni per loro.
La regina, pur vedendo tutto questo, non poté, tuttavia, comprendere l’ingiustizia di una tale distribuzione dei beni, perché continuò comunque a ragionare da regina. La testa regnante ebbe dei regnanti pensieri che non potevano ammettere rapporti diversi fra chi creava le ricchezze, faticando, e chi se ne impadroniva.
Al minatore divenne chiaro che per la regina era del tutto insufficiente possedere gli occhi limpidi e puri, ma occorrevano pure luminosi pensieri, perché le cose viste bene, dovevano essere soprattutto interpretate e ben comprese. Perciò il minatore disse alla sua fidanzata: «Cara, dovresti dare anche la tua lucida mente alla regina.»
«Sia così, caro. Anche se sarò un’infelice e dovessi perdere il tuo amore, ma è molto più importante fare star meglio il nostro popolo» – disse, e di notte, con l’intervento della fata buona, la povera fanciulla trasferì la sua mente alla regina.
Con una mente lucida e saggia si svegliò la regina il giorno dopo. Cominciò a pensare a questo punto nell’identica maniera del suo popolo.
Adesso si poteva sperare in decisive e radicali trasformazioni nel regno. Adesso si poteva credere che le terre sarebbero appartenute a chi le coltivava, le macchine tessili e filatrici sarebbero state rese ai tessitori e alle filatrici, il pesce ai pescatori, i boschi ai taglialegna, le greggi ai pastori e la libertà a tutti.
Adesso si poteva supporre che tutto quello che veniva creato dal popolo sarebbe appartenuto alla popolazione e sul trono sarebbe salita finalmente la tanto attesa regina del popolo, che si sarebbe presa la briga di pensare e di preoccuparsi in eguale misura di tutti: agricoltore e astrologo, lavandaia e musicista, costruttore e poeta.
Ma… non accadde. Il minatore sbagliò nelle previsioni. Lui non sapeva che la mente dai pensieri sublimi e nobili e il cuore duro della regina, non avrebbero potuto mai conciliarsi nella vita e sarebbero rimasti soltanto pensieri sublimi e nobili nella sua testa.
«La regina ha bisogno di un grande, ardente cuore!» – esclamò il minatore.
Era l’ultimo bene rimasto alla figlia di una lavandaia.
«Ma se do anche il mio cuore alla regina» – disse lei, piangendo, al fidanzato, – «con che cosa ti potrò amare?»
«Dividiamo a metà il mio cuore, tanto grande d’amore per te da bastare ad entrambi. La regina, invece, avrà il miglior cuore di tutti i cuori migliori del nostro regno!»
La ragazza regalò alla regina il suo intrepido, buon cuore, pieno d’amore e da lì a poco sul trono monarchico, intagliato da un semplice falegname di campagna, ascese una regina del popolo. Lei era precisa e identica a come l’immaginario popolare se la rappresentava nelle sue favole magiche.
Le sue trecce d’oro erano sciolte e i lunghi capelli, lasciati fluire giù a morbide onde, erano abbelliti soltanto da un filo di lana rossa e, al posto di una corona d’oro e di pietre preziose, sulla sua testa si distingueva una coroncina blu scuro di fiordalisi, che crescono soltanto fra le spighe dorate del frumento.
La regina indossava un semplice abito di lino color cielo di primavera, tinto sapientemente per l’occasione da un vecchio-mastro tintore. Le sue braccia sottili erano lasciate scoperte, perché persino i guanti più belli della terra, non reggevano il paragone alla loro incantevole grazia naturale e bellezza.
Ai piedi la regina aveva scarpette intrecciate da cento finissime striscioline di fibra di tiglio. Ed invece dello scettro – il simbolo del potere -, teneva nelle mani le spighe dorate di grano.
Attorno alla regina stavano seduti i ministri-delegati del popolo, provenienti dai ranghi dei mastri tessitori, minatori, fabbri, agricoltori, pastori, pescatori e falegnami.
Un cancelliere popolare e i ministri del popolo discutevano una legge per espropriare tutte le ricchezze del popolo ai sette re senza corona, che se ne erano appropriati indebitamente, nonché l’abolizione nel regno della schiavitù e dello sfruttamento.
In questo memorabile giorno, tutta la gente si riversò per le strade delle città e dei villaggi, esaltando l’intelligenza e il buon cuore della regina popolare. Creò canti felici sul lavoro libero dallo sfruttamento. Ma nello stesso giorno nel castello echeggiò uno sparo a tradimento…
Smise di battere il cuore della regina.
Il popolo si ritrovò come prima nel giogo della schiavitù dei sette re senza corona.
Al popolo ordinarono di dimenticarsi della regina popolare e agli storici severamente vietarono di menzionare negli annali una regina, cui il popolo diede il suo cuore. Inoltre, ordinarono di considerare tutto questo come un’altra delle tante inattuabili favole.
D’allora, il popolo smise di sognare nelle proprie favole di re e di regine popolari e non diede loro mai più il proprio cuore…
Così finì di raccontare questa favola un vecchio marinaio che soggiornò nel nostro Paese.
E così la finirò anch’io, perché è finita e per conto mio non ho niente da aggiungere. Cosa c’è da aggiungere alle favole altrui? Bisogna ascoltarle…
[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]