Una sera Aldo Mercalli, scrittore affermato di 59 anni (p. 98), “già professore di italiano e latino…scrittore tradotto in tante lingue” (p. 14) e narratore di questa storia in prima persona, torna a casa (Ferrara, chi lo sa?) e vi trova il suo doppio. E noi capiamo che la motivazione di questo sdoppiamento della personalità è tutta nel naturale, umano rifiuto di accettare la fine della primavera e l’incipiente vecchiaia. Ne deriva una lotta tra la parte giovane, forte, erotica, spregiudicata che prende il nome di Angelo, e la parte vecchia, irresoluta, debole, stanca di amare, incapace di agire del protagonista, di Aldo. Angelo fuma, fa da mangiare, infesta la casa di odori (ma “il suo odore [è] forte, giovane, incorrotto”), mentre Aldo non fuma, preferisce mangiar fuori e ci tiene molto a mantenere la casa priva di ogni odore (p. 37), sebbene egli “puzzi di tempo” (si vedano le pp. 84-85); Angelo dice la verità su Emma, Aldo invece è vigliacco e chiuderebbe volentieri gli occhi davanti alla verità (p. 54); Angelo si esprime in “una meravigliosa lingua primordiale” (p. 120) dai forti connotati erotici (“una prelingua eterna ed erotica, non di parole ma di emozioni, che si liberano in sospiri, balbettii, gemiti, voci, risa, pianti, grida…” (p. 73); Aldo invece si esprime nella lingua convenzionale dei parlanti (“Le lingue che nascono, muoiono e si dimenticano…” p. 73).
Tutto il romanzo è fondato su questa contrapposizione, ovvero scissione dell’io (viene citato Rimbaud che afferma: “Infatti Io è un altro…” p. 46) e indaga la condizione esistenziale del protagonista che, con le parole di Shakespeare, si potrebbe così riassumere: “Non hai più giovinezza, né ancora vecchiaia…” (p. 43).
Il romanzo racconta, dunque, una “discesa agli inferi”, secondo la definizione che dà Sveva dell’inchiesta di Aldo. Si badi: non è un caso di depressione. Sveva lo dice chiaramente: “Un depresso non affronterebbe mai una tale discesa agli inferi, per paura di toccare l’osso dell’anima” (p. 64). Che cos’è, allora? E’ un’indagine letteraria che fa luce sulla condizione dell’uomo, sulla sua finitudine, sull’amore e sulla morte, tutti i grandi temi della letteratura universale. Ed infatti l’azione del romanzo coincide con la sua scrittura da parte del protagonista, il romanzo è scritto nel mentre è vissuto (vedi p. 142: dice Sveva: “Aldo ora basta! Taci! Non voglio più sentire una parola! Hai scritto davvero questo?”. Risponde Aldo: “Sì! E proprio in questo momento!”), secondo ritmi di negazione e riconciliazione di romanzo e vita che scandiscono tutto il libro (si leggano a tal proposito i due capitoli della parte finale dal titolo Romanzo e vita si negano e Romanzo e vita si riconciliano).
Due donne sono presenti nel romanzo e ne determinano per così dire la sorte: Emma Sguoto e Sveva Beltrametti. Alla prima è dedicata la prima parte del romanzo dal titolo Il quaderno di Emma, alla seconda la seconda parte dal titolo La scelta di Sveva.
Emma abita a Padova (p. 11) ed è “disillusa sugli uomini” (p. 8). Di lei si dice che è tutta “assorbita dal suo lavoro, qualcosa di scientifico, nel campo della genetica”. Emma “scriveva. Solo per sé, senza alcuna pretesa di pubblicare una riga. E questo suo atto gratuito aveva cominciato ad affascinarmi. Quasi quanto il corpo androgino e ancora acerbo, da adolescente, a quarant’anni…” (p. 9). Sappiamo, inoltre, che intrattiene relazioni erotiche con uomini e con donne, consegnando alla scrittura di un “grosso diario” (p. 9) tutti i suoi segreti. E’ lei che definisce “vecchio leone” il nostro Aldo ed è lei che lo spinge allo sdoppiamento prospettandogli quanto lo aspetta “dopo primavera”. Alla fine del romanzo il protagonista capirà la sterilità dello “scrivere per sé”, quando questo sia solo motivato dalla esigenza di mantenere celata una parte indicibile della propria vita.
Sveva Beltrametti è tutt’altra donna. Abita a Bologna (p. 151) ed è una famosa cantante lirica di 50 anni (p. 98), dalla voce melodiosa che richiama alla mente quella erotica di Angelo, così come il suo buon odore richiama quello altrettanto buono di Angelo; Aldo dice in uno dei dialoghi col suo doppio, che “è una donna disposta a mettersi in gioco più di quello che pensi” (p. 73), una “donna impareggiabile”, “molto più capace di amare di quello che avevo creduto” (p. 180), “la sua coscienza corre verso la verità, senza sdoppiarsi” (p. 126). A lei è affidato il compito di riportare dagli inferi alla vita il protagonista e di “chiudere” il libro (p. 178). Non a caso è spesso paragonata ad Alcesti del mito greco, che salva dalla morte lo sposo Admeto, sacrificandosi per lui.
Lo scioglimento dell’azione si ha già a p. 158 nella scena d’amore tra Aldo e Sveva: “Mentre la baciavo, il suo odore non mi era parso mai tanto buono… in pochi minuti ci ritrovammo nella sua camera. Dove le tracce dell’uno e dell’altro Aldo che Sveva aveva amato si confondevano tutte nei miei gesti, che tornavano ad essere gli stessi di sempre”. L’amore salva dalla “paura di finire la vita in una vecchiaia solitaria” (p. 158) e restituisce una sorta di integrità psichica alla persona umana: “Restavo unico, irripetibile e solo. Come tutti. E non mi avrebbe salvato mai nessun genio della lampada dei desideri. Non mi avrebbe soccorso nessuna edizione emendata della mia vita. Nessun lifting dell’anima.” (p. 159).
Qui il protagonista comprende la stoltezza delle parole con le quali Emma gli indicava la fine imminente: “Ora Emma Sguoto non avrebbe più potuto accusarmi di non sapere reggere “dopo primavera”, nell’estate di un amore, per paura di fiutarvi già la fine”. (p. 159); e così pure in chiusura comprende che si può davvero “scrivere per sé” solo quando si siano fatti per bene i conti con la propria vita e che non c’è alcun bisogno di “mantenere segreta una parte della sua [di Emma] persona” (p. 125): “Questa volta avrei davvero scritto solo per me, come Emma Sguoto mi aveva rimproverato di non saper fare. Ma a differenza di lei, ora io potevo distruggere la parte che Emma temeva di manifestare, perché l’avevo rivelata” (p. 181). Ecco perché alla fine del romanzo Aldo procederà a “strappare le pagine fitte della mia scrittura e a stracciarle in minuti pezzetti, gettandole a poco a poco nel cestino sotto il lavabo” (p. 181). Si strappa ciò che è indicibile, si pubblica l’indicibile recuperato nella forma romanzesca che gli dà un senso, non si sa bene quanto vicino alla verità.
Tutto il romanzo consiste, dunque, in questa rivelazione della propria vita, che si invera attraverso una scrittura che, in quanto è autenticamente “per sé”, è anche “per tutti”. In questa contraddizione risolta, in questo paradosso condivisibile sta forse il senso del romanzo di Roberto Pazzi, dove l’immaginazione rende possibile tutto questo, scissione e ricomposizione dell’io, e sua redenzione finale.
Alla fine, nel sonno, Sveva spara “… a Emma…”; ovvero, fuor di metafora, colei che ama e ridona l’integrità psicofisica all’amato uccide colei che, all’inizio del romanzo, ha additato al “vecchio leone” un destino di morte, spingendolo agli inferi e causandone lo sdoppiamento. Emma è il motore del romanzo, Sveva la sua soluzione a lieto fine. Roberto Pazzi ci dice che, grazie all’amore, è possibile salvarsi, ma non senza aver fatto i conti fino in fondo con l’altro che è in noi, non senza una discesa agli inferi. E’ un messaggio impegnativo per il lettore, che è proiettato in una dimensione psicologica complessa tanto quanto lo è la scrittura del romanzo.
Il romanzo di Roberto Pazzi non è certo fatto di pagine patinate come quelle di “un best-seller mozzafiato… Uno di quei libri che non avrei mai letto, che non lasciano una sola idea, dopo che li hai finiti. E di cui l’America, con i suoi scrittori, invade i mercati della Terra!…” (p. 77); e nemmeno contiene una scrittura come quella degli epigoni di Proust, memorialisti a cui “manca l’invenzione, non sanno narrare” (p. 146), come dice l’editore parigino di Aldo Mercalli, facendosi portavoce dell’autore.
Ma tant’è: non c’è salvezza possibile, per chi scrive e per chi legge, che non abbia i suoi alti costi.
[L’estate della conoscenza, pubblicato col titolo “Io è un altro…” (recensione a Roberto Pazzi, Dopo primavera, Frassinelli, Torino, 2008), “Il Paese Nuovo” di domenica 7 giugno 2009, p. 6.]