Un ragazzino ci rivelerà una bellezza nuova

Dai primi mesi del ventesimo anno di questo secolo, noi stiamo facendo un’esperienza di conoscenza soggettiva e collettiva che sta provocando una profonda trasformazione della nostra visione del mondo e della interpretazione delle storie che attraversano il mondo. Per certi aspetti ne abbiamo lucida consapevolezza; per altri aspetti forse – ancora- no: per altri aspetti abbiamo sensazioni, impressioni, emozioni, incredulità, paure.

L’idea di bellezza e il rapporto con essa è parte, spesso fondamentale, della visione del mondo. Di conseguenza è inevitabile che si trasformi. D’altra parte, come dice Umberto Eco, la bellezza non è mai stata qualcosa di assoluto e immutabile ma ha assunto volti diversi a seconda del periodo storico e del paese.

Ecco, dunque, com’è del tutto naturale che la storia di questo tempo determini una rielaborazione dell’idea di bellezza. Fino ad un anno fa, per esempio, non avremmo mai sospettato di sentire qualcuno che dice: com’è bello poter andare a fare la spesa al centro commerciale di Lecce. Eppure qualcuno l’ha detto e qualcuno l’ha sentito. Quello che fino ad un certo giorno è stato consueto a tal punto da non farci neanche caso o da costituire talvolta addirittura un fastidio, all’improvviso diventa bello. Questa trasformazione del consueto in bellezza è provocata dalla mancanza che si avverte, da una temporanea barriera che si alza, da una condizione di impossibilità che si manifesta.

Sarà inevitabile che la letteratura, la musica, che tutte le arti stabiliscano un confronto con la mancanza, con la barriera, con l’impossibilità. In fondo, l’arte non ha mai fatto niente di diverso; si è sempre confrontata con mancanze, barriere, impossibilità. Ha tentato di comprendere quali fossero gli effetti che mancanze, barriere, impossibilità, potevano produrre nelle profondità di ciascuno e nelle dimensioni della civiltà. In qualche caso e in qualche modo lo sta già facendo, ma il metodo inevitabilmente risente di una emotività concentrata e affiorante. C’è bisogno di un distacco che solo il tempo concede. Non sarà chi adesso ha quarant’anni e di più a comprendere e a narrare questo tempo. Chi ha quell’età, di questo tempo può soltanto fare la cronaca.  A comprendere e a narrare, sarà chi adesso ne ha dieci e di meno. Sarà colui che da una mattina a quella dopo si è ritrovato in una situazione inimmaginabile della quale nessuno sapeva dargli spiegazioni per il semplice fatto che non poteva sapere cosa dire, o gli dava spiegazioni approssimative perché approssimative potevano essere le sue conoscenze. 

Ecco. Gli effetti che le mancanze, le barriere, le impossibilità di questo tempo hanno provocato in ciascuno di noi e nelle forme della nostra civiltà, potranno essere compresi veramente quando fra trent’anni un ragazzino di oggi si metterà a raccontarli. Quando nella condizione della sua maturità sarà in grado di discendere, di sprofondare nella memoria della sua infanzia per riprovare il sentimento di sbalordimento ma con la ragione che il tempo e l’esperienza gli avranno consegnato. Potremo capire quello che oggi accade quando lui si metterà a raccontare: come se fosse un altro: in modo da poter essere tutti, o comunque molti, consentendo a tutti o a molti la possibilità di rispecchiarsi e riconoscersi nella sua storia. Allora, quando colui che oggi è un ragazzino fra trent’anni si metterà a raccontare, da quella narrazione potremo capire, fra l’altro, che cosa è diventato bello, che cosa non lo è più, che cosa sarà bello ancora. Potremo capire, allora, quali saranno le forme e i significati di una bellezza nuova o di una bellezza antica rinnovata.   

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 11 aprile 2021]

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