Dall’anfiteatro di Taranto al Progetto AnfiTar

Il Progetto AnfiTar si muove dunque lungo tre direttive principali:

la prima riguarda l’indagine stratigrafica dell’area sotto il Mercato Coperto, per il recupero dell’anfiteatro romano e di un’importante porzione della storia urbana, con un innovativo cantiere di archeologia urbana che metta al centro dei lavori il contatto continuo con la comunità cittadina.

Il secondo obiettivo prevede la progettazione e la realizzazione di un contenitore culturale polifunzionale che potrà articolarsi come segue:

            a) Centro di documentazione dei risultati di scavo e restauro dell’anfiteatro. Si può pensare ad un Museo dell’anfiteatro che racconti anche attraverso tecnologie digitali (realtà virtuale) i giochi e gli eventi che avevano luogo in questo spazio (cacce ad animali selvatici, giochi gladiatori, naumachie). Qui potrebbe trovar posto il sistema operativo che unifichi le varie aree archeologiche della città, come propone in un intervento recente Emanuele Greco, facendo riferimento alle esperienze attuate ad Atene; tra questi luoghi dell’archeologia attende di uscire dall’abbandono il sito di Largo S. Martino, nella città vecchia a pochi metri dal polo di S. Domenico, che domina in posizione elevata il Mar Piccolo, dove gli scavi hanno portato alla luce l’abitato indigeno iapigio, che precede la fondazione della colonia greca.   

b) Polo espositivo destinato a mostre temporanee e ad eventi culturali (conferenze, eventi artistici e musicali)

c) Info point turistico

d) Spazio di accoglienza dei visitatori, con bookshop e caffetteria

In questi ambienti potranno essere esposte le copie dei ritratti di Druso Cesare e di Germanico, con tutta probabilità rinvenute nell’area dell’anfiteatro, e cedute, nel Settecento, dal Vescovo Capece Latro al re di Danimarca (attualmente sono conservati nel Museo Archeologico di Copenhagen).

Ma sarà questo il luogo in cui raccontare un’altra delle storie straordinarie di questa città, che prende le mosse dall’anno fatidico del 209 a.C., quando essa fu presa dal console romano, Quinto Fabio Massimo, che la spogliò delle sue ricchezze di uomini e cose, e portò a Roma uno dei bottini più ingenti tra le città conquistate dell’Antichità. Taranto ricevette un colpo mortale come potenza del Mediterraneo ma non scomparve dalla scena ed il suo porto continuò ad essere punto di riferimento dei traffici commerciali. Anzi i ceti mercantili di Taranto e Brindisi, agli inizi del II sec. a.C., fecero pressione sul Senato di Roma affinché si intervenisse militarmente contro le scorrerie dei pirati che saccheggiavano le coste adriatiche della Puglia. A difesa di questi agri maritimi, nel 181 a.C., fu ripristinato il governo provinciale della regione, affidando al pretore Lucio Duronio (un nome che è tutto un programma!) il mandato di intervenire per proteggere gli interessi commerciali minacciati delle due città.

Infine, a rafforzare la sua realtà demografica, con la lex Sempronia agraria, proposta dal tribuno della plebe Tiberio Gracco nel 123-122 a.C., fu dedotta una colonia marittima, che prese il nome di Neptunia, a ribadire ancora il collegamento di Taranto con il suo mare. Come risulta da una lunga trafila di studi che ora Gianluca Mastrocinque ha discusso organicamente nella sua monografia su Taranto romana, l’insediamento dei cittadini romani dovette sorgere nella zona orientale, prima occupata dalla necropoli greca, in corrispondenza dell’area tra via Regina Elena e via Minniti. L’archeologia racconta una vicenda unica di convivenza tra due realtà differenti: la città greca con gli eredi dell’antica polis e la nuova comunità romana. Mondi diversi a contatto, che parlano una lingua diversa, che abitano in case di diverso tipo, che seppelliscono i loro morti, gli uni con il rito dell’inumazione, gli altri con quello dell’incinerazione, che si autorappresentano attraverso l’arte innovando rispetto alle tradizioni locali. Nella colonia i cippi di pietra con i ritratti dei defunti posti sulle sepolture recano l’impronta di una sobrietà che sconfina con la schematicità, e perfino con la rozzezza, ben distante dalle raffinate decorazioni dipinte delle tombe a camera che ancora accoglievano le spoglie dei greci, eredi dell’antica metropoli. Due diverse città convivono nello stesso insediamento, ma non esiste attualmente un luogo che permetta di raccontare queste straordinarie vicende ad un pubblico più vasto; una ragione in più per pensare al Polo espositivo dell’anfiteatro!

Infine sarà necessario giungere alla definizione di un piano di gestione a lungo termine, che garantisca al progetto le necessarie ricadute economiche e sociali, attraverso una struttura che applichi le migliori pratiche, facendo tesoro delle esperienze che, in altre città italiane ed europee, come Aquileia, Ravenna, Barcellona e Marsiglia, hanno permesso di trasformare le risorse culturali in occasioni di lavoro e di crescita socio-economica.

Si potrà, anche a Taranto, far emergere, nello spazio di condivisione culturale dell’anfiteatro, la dimensione sociale “dell’uso pubblico della Storia”, per usare l’espressione di un archeologo amico come Riccardo Francovich “…operando in un quadro di ricomposizione e di “inclusione” dei più diversi soggetti nelle scelte di tutela e di gestione del patrimonio.”

[“La Gazzetta del Mezzogiorno” di domenica 4 aprile 2021]

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