di Francesco D’Andria
Confesso di non aver previsto che, dopo il mio intervento sull’Anfiteatro di Taranto, tanti autorevoli studiosi avrebbero ripreso il tema, personalità che da anni si misurano con l’enorme ricchezza di storia e di archeologia della città bimare, contribuendo a farne conoscere le connessioni profonde con le altre civiltà del Mediterraneo. Bene ha fatto la Gazzetta del Mezzogiorno a pubblicare, a ritmo sostenuto, questi testi, che già compongono un ideale “libro d’attualità”, quello che gli inglesi indicano come “instant book”.
A confermare quanto Taranto abbia ancora da rivelare dei suoi tesori sepolti, ecco la notizia, divulgata dalla stampa, della straordinaria scoperta di una grande fattoria (o villa rustica?) di età romana, da parte della Soprintendenza, nel corso degli scavi, diretti da Laura Masiello, per il nuovo Ospedale San Cataldo, in prossimità della Statale 7, la strada che collega la città a San Giorgio Ionico. Addirittura un’azienda olearia, come ci dicono i dolî in terracotta per lo stoccaggio del prezioso prodotto degli alberi che sono, da sempre, il simbolo della nostra terra e che i Romani sapevano come curare, impedendo i disastri che oggi purtroppo sono stati provocati dalla Xylella, ma soprattutto dalla nostra indifferenza. Anche da questo antico luogo della produzione dobbiamo immaginare che confluissero all’Anfiteatro gli operai, i liberti e gli schiavi per assistere ai munera, i combattimenti dei gladiatori, per acclamare i loro eroi, vere celebrità, come i calciatori di oggi, e per ammirare le belve esotiche fatte venire dall’Africa, nello spettacolo della caccia.
Gli studiosi intervenuti hanno affrontato la questione della messa in luce dell’Anfiteatro da vari punti di vista, ma tutti sono stati concordi nel sottolineare due punti: