Allora, almeno in una prima fase dell’avventura, colui che legge forse non deve affidarsi a note, spiegazioni, commenti, meno che mai a parafrasi, ad altrui interpretazioni. Forse deve lasciarsi trascinare dal vento che tira in quell’universo, abbandonarsi all’alzarsi e al ritrarsi delle maree, riposarsi nei paesaggi di quiete, confrontarsi con il subbuglio delle immagini, coinvolgersi nell’impeto di certe terzine, o affidarsi alla pacatezza di altre. Senza chiedersi sempre che cosa vuol dire. Ma sentire quella musica. Il resto viene dopo. Se si vuole, il resto viene nel corso di tutta la vita. La lettura della Commedia è un’esperienza infinita. Non c’è una volta che esprima lo stesso senso. Si può prendereil canto di Ulisse, per esempio. Se lo si rilegge anche soltanto un minuto dopo averlo letto, ti consegna un senso diverso. Il senso si conforma alla ragione, alla sensazione, alle emozioni che si vivono in quel momento, oppure alla condizione e alla stagione della tua vita.
Per questo il libro di Dante pretende un lettore solitario: per il fatto che non c’è esistenza, che non c’è un solo istante di esistenza, una sola ragione, sensazione, emozione che si possano mettere in paragone con un’altra esistenza, con le ragioni e le emozioni di un’ altra creatura. Certo, si tratta di una condizione che vale per ogni opera d’arte. Ma con certezza ulteriore vale per un’opera d’arte che si compone di molte e molte stratificazioni culturali e semantiche.
La Commedia chiede, probabilmente pretende, un lettore disposto a farsi travolgere dal testo, consapevole del fatto che la comprensione resterà sempre probabile ma mai indubitabile, disponibile a lasciare fuori dall’esperienza di lettura schemi, formule, percorsi predefiniti. Vuole un lettore che sia disponibile alla battaglia con il testo, alla resa, al desiderio di rivincita. Vuole un lettore che sia al tempo stesso umile e spavaldo, arrogante e remissivo. Non si legge il libro di Dante senza arroganza, senza spavalderia, senza un istinto di sfida, un dire al testo adesso a noi due. Non si legge senza mettere in conto di perdere la sfida, senza accettare di farsi sbalordire.
Forse la sensazione costante che il lettore comune avverte davanti alla Commedia, è quella dello sbalordimento provocato dalle immagini, dal ritmo, dalla combinazione di ritmo e immagini, dalle situazioni estreme che riguardano lo sprofondo dell’inferno e la vertigine del paradiso. Ma anche lo sbalordimento per un linguaggio che riesce a stringere il senso più intimo della tragedia umana e della dimensione eterna.
Dante lo si legge da soli. Anche disorientati. Anche dispersi nel suo universo di segni, di sensi. Lo si legge con coraggio. Lo si legge con pazienza, aspettando che i significati arrivino, vengano a cercarti quando non li aspetti, e non mentre leggi, ma in un giorno qualsiasi, in un momento qualsiasi di un giorno, o mentre incontri qualcuno, o mentre vivi un dolore, mentre una stagione della vita si conclude e un’altra comincia, mentre rifletti su quello che accade, sul tempo presente, passato, futuro, su te stesso, sugli altri, allora viene a trovarti il senso di quel verso, di quell’immagine, di quella parola. Viene a trovarti: nitido, preciso, unico, irripetibile, incomparabile, assoluto. Il senso che ha quella parola, quel verso, nella tua esperienza, nell’avventura della tua vita.
Dante si legge in solitudine. Perché in solitudine ciascuno si confronta senza schermature con le storie che rappresentano tutti i possibili destini.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 28 marzo 2021]