di Antonio Errico
Poi, quando le celebrazioni per l’anniversario saranno finite, alla Commedia di Dante bisognerà ritornarci da lettori solitari. Perché forse è soltanto in solitudine che si può entrare in quell’universo sconfinato, o che sconfinato comunque sembra, che è il testo. Forse si può entrare soltanto confrontando ogni verso, confrontando ogni parola, con la propria esperienza, ma anche con il proprio immaginario, la propria fantasia. Leggendo. Rileggendo. Tentando lo scandaglio dei significati. Cercando di individuarne i riflessi, le espansioni, le proiezioni, le dilatazioni, gli annodamenti. Scavando nelle allusioni e negli impliciti riferimenti. Con la consapevolezza che non ci sarà mai una interpretazione definitiva, che ci sarà sempre il senso di un verso che si rinnova, una sensazione di lettura che non si era avvertita prima. Lo diceva Vittorio Sermonti che soltanto gli specialisti possono dimenticare, o far finta di dimenticare, che la Commedia si legge sempre per la prima volta. La leggi e poi la leggi un’altra volta e non sei mai quello che l’ha letta la volta prima. La tua stessa memoria ti si svelerà non come un patrimonio acquisito una volta per tutte, ma come uno sterminato e rischiosissimo campo di avventura.
Ecco. Probabilmente la lettura della Commedia è sostanzialmente un’avventura: nella storia, nell’immaginario, nella fantasia, nella filosofia, nella musica. La commedia è sonorità, melodia, armonia sublime. Possono sfuggire i significati, i riferimenti. Può sfuggire la storia e la filosofia. Ma non la musica. Viene prima del significato. Resta dopo l’incontro con i destini che sono raccontati, dopo quelle figure drammatiche e appassionate che appaiono e scompaiono nel corso del poema.