Gli antichi musicisti romani
Alle origini di Roma antica immaginiamoci rozzi suonatori di tibia, lo strumento a fiato, più simile a un moderno oboe che a un flauto, che accompagnavano qualsiasi forma di manifestazione pubblica, o suonatori di lituus, strumento di bronzo a canna cilindrica con tipica forma a J, o di cornu circolare, o ancora di tuba, la tromba di varia lunghezza: strumenti, questi, provenienti dal mondo etrusco, che i Romani utilizzavano nelle attività militari e in altre occasioni della vita sociale. Poi venne la conquista della Macedonia del 167 a.C. e la vittoria di Corinto del 146 a. C. e, dunque, la penetrazione massiccia della cultura greca nel mondo romano. Cominciarono a vedersi le prime psaltriae (suonatrici di strumento a corde), le fidicinae (arpiste), tibicinae (flautiste), musiciste-prostitute, intrattenitrici dei banchetti lussuriosi del soldato romano vincitore, sorta di escort antiche con qualche dote in più rispetto alle moderne, suppongo. Infine, scrive Scoditti, “lentamente certi pregiudizi furono superati”, e la musica finì coll’ “esaltare la femminilità coi suoi elementi di fascino e di seduzione” (p. 20), tanto da diventare elemento non secondario nell’educazione della fanciulla di buona famiglia. La strada, insomma, era aperta, e la musica non tardò ad affermarsi come principale componente di ogni spettacolo teatrale.
Rivivono nella pagina dello studioso personaggi dell’antica scena musicale: il citaredo Nicocle, “uno straordinario musicista tarantino” (p. 35) della prima metà del III secolo a. C., Andronico, altro greco di Taranto, al cui nome è anche legato l’inizio della letteratura latina, “un esempio di solista e virtuoso greco”, sotto la cui guida è probabile che si sia formata “la prima associazione romana di artisti scenici” (p. 42), Marcipor, collaboratore di Plauto, schiavo di Oppio, e Flaccus, servo di Claudio e collaboratore dei Terenzio, e altri. Sono i pionieri della musica romana, i mediatori in Roma della musica greca e della Magna Grecia, precursori di quell’arte molto raffinata di cui fu testimone in piena epoca repubblicana Cicerone, quando l’esecutore doveva essere dotato di “un’ottima capacità mnemonica (non esistono testimonianze, letterarie o iconografiche, di spartiti sulla scena)” (p. 59), tanto da diventare “più importante degli stessi attori” (p. 60). Anche così si spiega forse la decadenza del teatro latino.
La musica nell’età imperiale
In effetti, in età imperiale, si afferma un altro tipo di spettacolo: il pantomimo. Esso è basato sulla “fusione di generi diversi (danza, musica, rappresentazione teatrale), e s’ispirava a grandi temi di carattere mitologico o a soggetti epici noti a tutti e svolti talvolta con precisione di particolari lubrici” (p. 73). Qui la musica spadroneggia e, separandosi dalla danza e dal canto, acquista in autonomia. “Tutto si organizza, scrive Scoditti, intorno alla forza espressiva della musica e ai gesti dell’unico attore-danzatore…” (p. 78). Dobbiamo però pensare ad una scena molto ricca, in cui, secondo la testimonianza di Luciano, un eterogeneo gruppo di esecutori, soprattutto strumentisti a fiato, spesso con strumenti di grande mole e di raffinata fattura, opera insieme al coro, sotto la direzione di un praepositus symphoniacorum o magister, un direttore d’orchestra. Anche qui rivivono i virtuosi dell’epoca: Aléxandros, celebre virtuoso d’arpa triangolare, il citaredo Mesomede, Anaxénor, un famoso citaredo proveniente dalla ricca provincia d’Asia, il citaredo Terpno, che insegnava musica a Nerone, il successore Menecrate, ecc.; tutti artisti che venivano pagati profumatamente dai nobili e dagli imperatori dell’epoca, ricevendo anche consensi e riconoscimenti entusiastici “a consacrazione del loro successo e soprattutto dopo le vittorie riportate negli agoni musicali” (p. 108). Denaro e statue, come moderne star, ma anche fischi, insulti e sberleffi quando l’esecuzione non convinceva il pubblico. “Gli spettatori romani erano senza pietà nei riguardi di un mediocre citaredo” (p. 114): addirittura, secondo il racconto di Luciano, il citaredo Evanghelos di Taranto “fu frustato per la sua disastrosa esibizione” (p. 131). Il che attesta il grado sopraffino di conoscenza musicale che il pubblico possedeva; di qui anche l’importanza ideologica della musica soprattutto in età imperiale. “Il citaredo professionista, scrive Scoditti, non era solo un semplice cantante esecutore, ma si faceva portatore di una serie di “superiori” contenuti ideologici e religiosi che, in definitiva, servivano a legittimare il suo successo” (p. 130). Egli era, doveva essere, l’immagine stessa di Phoebo o Apollo, in lui il pubblico doveva vedere il dio (il cui attributo era appunto la cetra), l’incarnazione degli ideali di razionalità e delle virtù pacificatrici della nuova era inaugurata da Augusto. Ottime queste pagine di Scoditti (pp. 130-139), nelle quali la distinzione tra due realtà musicali, quella rappresentata dagli strumenti a corda (la cetra-lira) e quella rappresentata dagli strumenti a fiato (gli auloi), diventa antitesi ideologica tra due diverse visioni culturali, la prima incarnando la civiltà romana, la seconda la barbarie orientale. Risulta a questo punto chiaro perché non pochi imperatori, primo tra tutti Nerone, ebbero a cuore la musica, e addirittura ricercarono il primato negli agoni musicali che si svolgevano anche a Roma (e la Roma imperiale era il centro principale della musica antica). E diventa chiaro anche perché la cetra romana sparisca per sempre dalla letteratura e dalla iconografia cristiana medievale. Finita la civiltà pagana, scompare anche lo strumento che ne aveva scandito il ritmo musicale, la sua per così dire colonna sonora.
La partitura del Carmen saeculare di Orazio
Scoditti analizza con acribia di filologo le testimonianze letterarie, alla ricerca di indizi che possano portar luce sul mondo scomparso della musica romana antica. Il fine, a cui lo stesso studioso non riconosce alcun valore scientifico, è avvicinarsi quanto più è possibile ai veri caratteri stilistico-musicali dello strumentista antico. Ma come fare, se non ci è rimasta “una sola nota riferita alla produzione musicale romana” (p. 178)? Lo studioso azzarda lo stesso un tentativo, musicando il Carmen saeculare di Orazio, sulla base degli indizi ricavati nella sua lunga ricerca; e questo gli sembra il miglior modo per concludere il lavoro. Ma qui la ricerca filologica lascia il campo alle congetture e, dunque, all’incerto della ricostruzione storica. E forse è un bene che il bel libro di Scoditti finisca così, come ogni ricerca autentica, in un tentativo di approssimazione al vero. Se davvero potessimo riascoltare la musica antica tal quale essa fu duemila anni fa e più, allora penso che non solo avremmo vinto “la guerra illustre contro il Tempo” di manzoniana memoria, ma anche avremmo ottenuto molto di più, risuscitato gli antichi e sconfitto la morte.
[Alla ricerca della musica perduta, recensione a Francesco Scoditti, Solisti ed esecutori nella cultura musicale romana, Congedo Editore, Galatina 2009), “Il Paese Nuovo” di martedì 13 aprile 2010, p. 7; poi ne “Il Galatino” di venerdì 14 maggio 2010, p. 4.]