Era quasi arrivata primavera. Il cielo era bianco bianco e nevicava. Nell’ospedale di Gagliano, giù giù, a Finibusterrae, moriva Salvatore Toma, a trentasei anni.
Diceva che poeti si nasce e a volte non si finisce. Diceva che un grande poeta si riconosce soprattutto dalla paura che si fa.
Lui è nato poeta e poeta è finito. E’ stato un grande poeta e si è fatto paura. Ci ha creduto. Senza nessuna riserva. Estremamente. Fino in fondo. Fino all’ultimo respiro che gli passò dentro il petto in quella primavera che portava la neve, lì, giù giù, a Finibusterrae.
Aveva preso la scorciatoia della poesia, pure lui. Quell’indagine complicata, intricata, impossibile, sulla verità dell’essere, pure lui. Ma sapeva che la poesia si può solo tentare, e che quel tentare è una disperazione d’uomo, uno sprofondare in mari o librarsi verso volte di cielo che non si può mai riuscire a dire. Ma quello è il destino. Toma lo sapeva bene. Il destino è il continuo tentativo di dire quello che non è possibile dire. A qualsiasi costo. Anche lui si avvicinava allo stupore: ma in che rari momenti, e a che prezzo.
Bofonchierebbe, Antonio Verri, se potesse sapere di una giornata mondiale della poesia. Bofonchierebbe come bofonchiava.
Lui voleva scrivere il “Declaro”: il libro che contiene tutti i nomi, tutti i luoghi, tutte le fantasie e le memorie, tutte le storie vere e quelle inventate, tutte le forme, le parole, i silenzi, ogni sonorità, ogni ritmo: un’opera composita, complessa, che si fa e si disfa in continuazione, una scrittura che si genera da se stessa, che da se stessa si scancella. Voleva scrivere un grande libro fatto così.
Ma Verri sapeva perfettamente che il Declaro non esiste, che il gran libro non poteva essere nient’altro che un abbozzo, coacervo di frammenti, quaderni di elenchi, trascrizioni, annotazioni, postille, chiose.
Diceva che fare letteratura, fare poesia, significa che quando si fa il conto, come lo fa un uomo, di tutto quello che si è scritto rimangono soltanto lo stupore, le svuotate parole, i propositi di volo; rimane solo il gioco, la ripetizione, il bisticcio.
Diceva che fare poesia, fare letteratura, non possa essere altro che un correre stolto, e un correre continuo, verso il solito albero d’oro, verso il solito vecchio profumato eldorado.
Ci vuole tutta una vita per percorrere la scorciatoia della poesia. Ci vuole una passione assoluta, la disponibilità a consegnarsi ad essa senza nessuna condizione. Ci vuole l’innocente illusione che prendendo quella scorciatoia da qualche parte si possa arrivare. Ci vuole la lucida consapevolezza non si arriverà da nessuna parte, perché comunque ad un punto si troverà il confine di uno strapiombo che non permetterà di continuare. La verità dell’essere è sul fondo di quello strapiombo dove non si può arrivare. Però si deve fare. Se la poesia, se la letteratura, se un’arte quale che sia, non è ricerca della verità dell’essere, allora è soltanto un artificio, una forma vuota e senza senso. Se non è questo allora è soltanto un imbroglio: innanzitutto nei confronti di se stessi.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 21 marzo 2021]