«Uno nato scemo, scemo rimane. Una domanda ce l’hanno, sì, eccome, ma il prezzo di questa domanda è assai piccolo, quasi come il becco di un passerotto. Così stanno le cose, stupidone!»
I fratelli dissero queste cose e andarono ognuno per la sua strada.
Il fratello maggiore camminava e camminava per le città e una volta gli capitò di entrare in un locale, dove vide alcuni mastri godersi il the attorno ad un tavolo. Il giovane si sedette vicino a loro e si mise ad ascoltare le loro conversazioni.
«Io guadagno centouno monete» – si vantava il mastro-muratore -. «Una moneta la spendo come mi pare e piace, le altre cento le porto a casa.»
Non appena il fratello maggiore sentì queste parole, smise di pensare ad altro. Stabilì subito che mestiere più remunerativo del muratore non avrebbe potuto trovare.
«Prendimi, mastro-muratore, come apprendista.»
Il mastro-muratore diede uno sguardo attento al giovane. Niente da dire: prestante, forte, spalle larghe e, ad occhio e croce, uno di quelli che non si lasciava sfuggire niente.
«Ti prendo» – disse, – «a patto che per te il denaro non avrà mai valore maggiore del mestiere!»
Così il fratello maggiore cominciò ad imparare il mestiere del muratore.
Il secondo dei tre fratelli, girando una volta per la fiera degli animali, notò che gli arcioni da sella avevano un’ottima domanda commerciale. Proprio a questo punto, sentì pure che un vecchio mastro-sellaio, vantandosi, diceva: «Le mie tasche sono tanto piene di soldi, da essere così dure e curve, quanto lo sono i miei arcioni da sella. Ogni arcione mi porta in tasca un rublo con qualche copeco. I copechi li spendo come mi pare e piace, il rublo, invece, lo porto a casa!»
Non appena il secondo dei tre fratelli sentì queste parole decise all’istante di mettersi a curvare gli arcioni da sella.
Il più giovane dei fratelli a sua volta aveva strappato dalla scorza del tiglio tante striscioline, aveva intagliato dai ceppi di legno delle forme di scarpa e si era messo ad intrecciare, senza fretta, uno dietro l’altro, i suoi lapti. Uno dei lapti veniva storto, l’altro aveva l’intreccio troppo lento, il terzo veniva così male, che c’era da vergognarsi a prenderlo in mano. I giovanotti-coetanei e le ragazze-fidanzate in coro deridevano il poveretto, chiamandolo mastro-deficiente, ottuso, proprio come i suoi ottusi lapti. Il giovane, tuttavia, non demordeva; intrecciava, intrecciava ed intrecciava. Una settimana passò, un’altra venne. Il giovane riempì il loro bagno-russo coi lapti, non c’era altro posto dove metterli, ma a conti fatti, non avevano niente che si potesse mettere ai piedi, senza arrossire per la vergogna. Alla quinta settimana, per via di tutti questi lapti, si cominciava a stare stretti stretti. Quindi, il figlio disse al padre: «Babbo, permettimi di prendere il cavallo per portare i lapti al mercato.»
Il padre gli diede il cavallo. Portò il mastro i suoi lapti al mercato e li scaricò tutti in un grande mucchio.
«Quanto vuoi, giovane, per i tuoi lapti?» – domandò la gente.
«Secondo coscienza.»
«Cosa significa, secondo coscienza?»
«Vieni, scegli quelli adatti al tuo piede. Se la coscienza ti parlerà; lei stessa ti dirà il prezzo. Se tacerà, significa che potrai portarli via gratis.»
La gente prese d’assalto i lapti gratuiti. In un battibaleno non ne rimase neppure un paio. Chi lasciava una moneta da due copechi, chi una monetina di rame da un quarto di copeco, c’erano pure quelli, che non diedero né due, né un quarto di copeco, ma chiesero addirittura al giovane di pagare un supplemento per i suoi lapti, dicendo: «Se è secondo coscienza, secondo coscienza sia. Pagami pure un quarto di copeco, ragazzo, perché ti faccio un piacere mettendo ai miei buoni piedi il tuo cattivo lavoro.»
Non c’era altro da fare e il giovane-mastro pagava un supplemento per i suoi lapti, ma intanto guardava attentamente quali erano i lapti che meglio si adattavano ai piedi e per quale paia la gente non aveva chiesto un supplemento e pagava volentieri secondo coscienza.
Il giovane finì la vendita, non ebbe in mano né denaro, né scarpe.Tuttavia era d’umore allegro, si mise persino a cantare.
«Ti vedo allegro, figliolo, non sarà per il fatto che sei riuscito ad avere un buon guadagno?»
«Sì, babbo, c’è stato un ottimo guadagno, non in soldi, però, ma nel sapere. Il sapere, babbo, è il valore che ha più valore degli altri!».
Disse così ed andò nel bosco per procurarsi la materia prima: strappare la fibra di tiglio per mettersi daccapo ad intrecciare i lapti.
Nel frattempo il fratello maggiore cominciava appena ad acquisire le prime nozioni del mestiere di muratore e si mise a lavorare in proprio, metteva un mattone sopra all’altro in fretta e furia, così come, peraltro, piegava precipitosamente i suoi arcioni da sella il secondo dei fratelli.
Mentre il fratello più giovane intrecciava cento lapti, il fratello maggiore aveva messo in opera un’enorme quantità di mattoni ed il secondo dei fratelli lo superò persino nella quantità prodotta di arcioni da sella.
Arrivò il tempo per i tre fratelli d’incontrarsi nella casa paterna.
«Dunque, cari figli» – disse il padre, – «raccontatemi con quali mestieri vi guadagnate da vivere.»
«Io, babbo, ho imparato il mestiere del muratore. Guadagno centouno monete. Presto mi sistemerò, avrò una casa e potrò sposarmi.»
Il padre lodò il figlio maggiore e si mise ad ascoltare il suo secondo figlio.
«Io, caro babbo, avrò presto le mie tasche talmente piene di soldi, che saranno tanto dure e curve, quanto lo sono i miei arcioni da sella. Ogni arcione mi porterà in tasca più di un rublo. Il mio mestiere parla da sé!»
Toccò al più giovane dire la sua.
«Il mio lavoro è tutto qua, babbo. Il mercato darà i suoi frutti.»
I figli maggiori rimasero ospiti del padre per un po’ di tempo e poi si prepararono per partire: il maggiore per riscuotere la paga per il suo lavoro da muratore, il secondo dei fratelli andava in fiera per vendere i suoi arcioni da sella. Il fratello più giovane chiese loro: «Fratelli cari, giacché state andando in città, perché non prendete a vendere anche il mio lavoro? Non si sa mai, magari riuscite a prendere qualche copeco: per me e il babbo sono sempre soldi.»
I fratelli maggiori diedero uno sguardo al lavoro di fibra di tiglio del fratello più giovane e dissero: «Se ce ne regali un paio a testa, ti accontetiamo.»
«Ma che discorso è questo!… Prendetene pure due paia a testa!» – disse il più giovane dei fratelli, tutto felice.
C’era di che gioire. Se i fratelli bravi mastri sono pronti a mettersi i suoi lapti, figuriamoci allora i semplici popolani e i contadini!»
Il fratello maggiore arrivò in città a riscuotere la paga, ma, invece di dargli i soldi, i committenti lo minacciarono di cacciarlo a spintoni sulla collottola, ingiuriandolo e subissando di brutte parole per la pessima qualità dei suoi muri.
A questo punto il fratello maggiore si precipitò dal mastro-muratore. Lo trovò seduto, bello tranquillo, in una trattoria a bere il the coi pasticcini, spendendo il soldo guadagnato, come gli pareva e piaceva e tenendo in seno gli altri cento soldi.
«Ma brutto screanzato, compreso il tuo paese! Ma che razza di apprendistato mi hai dato, che mestiere mi hai insegnato? I miei muri vengono ingiuriati e subissati di brutte parole. Non mi pagano il lavoro già fatto e vengo perfino minacciato d’essere scacciato a spintoni sulla collottola!»
Il mastro-muratore, come se niente fosse, continuò a prendere il suo the e a ridacchiare.
«Il mio insegnamento era molto diverso da come tu, giovane frettoloso, lo hai appreso. Non ti ho mai insegnato a dare al denaro un valore maggiore del mestiere. Perciò te lo meriti, altroché se lo meriti: invece di riscuotere la paga, dovresti essere scacciato in malo modo!»
Non c’è che dire. Il mestiere del muratore non era adatto alle mani del fratello maggiore, doveva cercarsi un altro mestiere. Ma intanto vendette la metà dei lapti del fratello più giovane e si mise sulla via del ritorno verso la casa paterna.
Nel contempo il secondo fratello sistemò in bellavista i suoi arcioni da sella per la vendita e scaricò lì vicino in un mucchio la seconda metà dei lapti del fratello più giovane. I compratori si gettarono sui lapti a spintoni, non degnando neppure di uno sguardo gli arcioni da sella.
Vendette tutti i lapti di suo fratello, mentre tutti gli arcioni da sella li abbandonò, così com’erano, in bellavista, sulla piazza della fiera. Nessuno se li prese, neppure gratis.
Strada facendo il secondo dei fratelli raggiunse il vecchio mastro-sellaio e gli chiese: «Dimmi, mastro-sellaio, come mai i tuoi arcioni da sella vanno così bene e i miei invece nessuno li guarda nemmeno?»
«Perché» – rispose il vecchio mastro-sellaio, – «i tuoi arcioni sono semplici, i miei, invece, sono arcioni semoventi.»
«Come sarebbe, semoventi?» – si mise ad insistere il secondo dei tre fratelli.
Ma il vecchio mastro-sellaio non gli disse più niente, rimase muto come un pesce e fece soltanto un sorrisetto furbo.
I tre fratelli s’incontrarono nuovamente nella casa paterna. Ancora una volta il padre domandò loro come andassero le cose nel guadagnarsi da vivere. Rispose per primo il figlio maggiore.
«Io, babbo, sono stato ingannato dal mestiere del muratore. Ho guadagnato appena appena quanto mi serviva per sfamarmi e comprarmi una sega longitudinale. Nel tronco di legno c’è tanto di quel denaro, basta solo segarlo in assi e in assicelle.»
«Anch’io, padre, ho cambiato mestiere» – disse il secondo dei fratelli. «Non si guadagna per niente bene, producendo arcioni da sella. Una miseria – un rublo con qualche copeco. Perciò ho deciso di diventare mastro-vasaio e ho già comprato un tornio da vasaio.»
«E tu, giovanotto, cosa mi dici?» – domandò il padre al figlio più piccolo.
«Per me parleranno i miei fratelli. Hanno venduto loro i miei lapti.»
«Grazie ai tuoi lapti siamo stati subissati di brutte parole e persino scacciati dalla fiera a forza di spintoni sulla collottola.»
«Che cos’era che non andava?»
«Non andava il fatto che tu dai al denaro un valore maggiore del mestiere» – disse il fratello maggiore.
Il secondo dei fratelli gli fece eco.
«Inoltre i tuoi lapti sono troppo semplici e non sono semoventi. Per sbarazzarmene ho dovuto abbandonarli in bellavista sulla piazza della fiera.»
Il fratello più giovane s’impensierì e si mise ancor più tenacemente al lavoro.
Anche i suoi fratelli si occuparono dei loro mestieri. Uno stava segando assi di legno e assicelle, l’altro modellava il vasellame d’argilla.
Arrivò nuovamente il tempo di partire per la fiera. Questa volta anche il fratello più giovane chiese ai fratelli di tentare la sua fortuna.
I fratelli videro che non c’era un solo difetto nei lapti per poterli denigrare e, tuttavia, li denigrarono ugualmente.
«Va bene, porteremo il tuo lavoro, ma solo perché sei il nostro fratellino più piccolo… Forse qualche copeco lo potrai guadagnare.»
La fiera era molto grande. I fratelli esposero la loro merce e richiamarono l’attenzione dei compratori.
«Guardate, gente, qui c’è vasellame per tutti i gusti e le esigenze!…»
«Se hai bisogno di assi di legno e di assicelle, solo qui le trovi ad un ottimo prezzo!…»
Ma dei lapti, neanche una parola. Perché non erano riusciti a portarli in fiera, li avevano venduti tutti strada facendo.
Quasi tutta la gente camminava con i nuovi lapti, lodandoli.
«Ma che bei lapti, vanno che è una meraviglia! Con lapti così comodi, chi avrà più voglia di mettersi gli stivali. Sono fatti, veramente, a regola d’arte; leggerissimi ed assai agili nei movimenti.»
La gente lodò i lapti, invece storceva il naso per le assi e le assicelle di legno e per il vasellame d’argilla. Per fare la carità, dietro a tanta insistenza dei fratelli, comprò a pochi spiccioli assi e assicelle come legna comune e il vasellame per farne dei cocci per il manto stradale. Era sempre meglio che buttarli!
I fratelli maggiori arrivarono a casa del padre con regali e vestiti nuovi, si vantarono dei loro ottimi guadagni.
«Le assi di legno andavano via che era una meraviglia!»
«Anche il vasellame è andato a ruba. La gente non la smetteva di lodare la loro bellezza, la leggerezza e l’abilità nei movimenti… Certo abbiamo venduto anche un po’ di lapti. Eccoti, fratellino, il tuo guadagno.»
Diedero al fratello più giovane soltanto una moneta da cinquanta copechi e qualche spicciolo. Ma per la gioia, il giovane si mise persino a danzare e cantare.
«E ora, fratelli, mi metto ad intrecciare lapti semoventi che camminano prima dei soldi!»
«Tu intreccia, intreccia, testa di rapa. Tanto sappiamo noi, come meglio imbrogliare tutti i tuoi intrecci.»
I fratelli derisero il giovane mastro di lapti e si misero al lavoro. Evidentemente non erano poi disonesti in maniera sfacciata. Non erano ancora del tutto irrecuperabili. Il fratello maggiore desiderava produrre almeno un’asse di legno che fosse adatta al suo uso. Anche il secondo dei tre fratelli si vergognava che il suo vasellame fosse adatto al massimo per essere usato come cocci per il manto stradale. Cercò anche lui di fare del suo meglio.
Passò del tempo e si dovette un’altra volta partire per vendere i prodotti. Caricarono su un carro il vasellame, le assi di legno e presero a noleggio altri tre carri per portar al mercato anche i lapti del loro fratello.
«Caro fratellino anche questa volta vogliamo esserti utili e aiutarti. E’ probabile che questa volta riusciremo a portarti persino due monete da cinquanta e anche qualche copeco.»
Il fratello più giovane rifiutò con decisione.
«No, cari fratelli. Non voglio più farvi vergognare con il mio lavoro, danneggiando la vostra immagine e la vostra reputazione.»
«Ma che dici, fratellino, ma noi per te siamo pronti a gettarci nell’acqua e nel fuoco. Di ogni azione siamo capaci per salvarti, non per niente sei il nostro preferito, il nostro fratellino… più piccolo.»
Il fratellino… più piccolo, tuttavia non mollava.
«Ho fatto un giuramento, fratelli, che farò dei lapti semoventi.»
«Semoventi e semoventi, ma cosa ti sei messo in testa? Non sarai mica impazzito?»
«Sto parlando di quei lapti che vanno da soli prima dei soldi!»
Vedendo che piega prendeva la faccenda, ai fratelli maggiori non rimase altro che supplicare il loro fratello minore. Ma lui, come un mulo, rimase fermo all’idea sua.
«Nessun paio di lapti uscirà fuori dal nostro bagno, finché non riuscirò a farli andare per conto loro.»
I fratelli maggiori si rivolsero per aiuto al padre.
«Babbo caro, sgridalo! Non senti che cosa ci sta dicendo?»
Ma il padre aveva compreso da tempo che razza di assi di legno venivano segate, che tipo di vasellame d’argilla veniva modellato.
«No, figli miei, non lo farò! Non ho mai obbligato voi due a far qualcosa di testa mia e non lo farò neppure col vostro fratello più piccolo. Se ha voglia di intrecciare lapti semoventi, lasciateglielo fare.»
Ma i fratelli insistettero.
«Anche tu, padre! Non sarai mica uscito di senno? Che favola è questa, che i lapti diventino semoventi?»
E il padre a loro: «E’ uscito dalle vostre bocche, figli miei, che al mercato non servivano lapti semplici, ma tutti cercavano quelli semoventi. Quindi debbono esistere lapti semoventi.»
Non rimase altro ai fratelli che portare al mercato le loro assi di legno storte, mal tagliate e il vasellame pendente da una parte. Bene o male riuscirono a venderli per pochi soldi. Macché vendere e vendere, diciamo pure che li vendettero quasi gratis. In tutto le loro merci fruttarono soltanto una manciata di monetine di rame.
Proprio a questo punto si avvicinò a loro il vecchio mastro-sellaio e disse: «Come mai, giovani, non avete portato i lapti? Quelli li avreste venduti senza neppure chiamare la gente alla vostra baracca.»
La gente sentì le parole del vecchio mastro e riconobbe i due fratelli. Si affrettarono a domandare perché mai non avessero portato i lapti e da quale villaggio provenissero.
I fratelli non seppero neanche che rispondere a tutta questa gente, tergiversarono; si capì che non avevano alcuna convenienza a far conoscere il fratello minore. Ma si trovò in fiera una contadina che conosceva la famiglia del vedovo coi tre figli e sapeva dove abitavano.
Questa donna raccontò a tutta la gente come veramente era andata tutta la faccenda.
La gente si riscaldò, si animò. Quelli tra loro un po’ brilli si misero ad agitarsi, a scuotere le mani, gettare parole roventi contro i due fratelli, cosicché dovettero fuggire dal mercato come lepri per evitare di essere malmenati.
Giunti a casa, si stavano preparando a raccontare al padre un sacco di bugie e le frottole più disparate, ma sentirono che nei pressi del loro bagno-russo si era fermata tutta la gente arrivata dal mercato.
«Ma guarda te che roba!»
Nel guardare, videro: gente anziana togliersi i cappelli, chinarsi dei popolani adulti di tutto rispetto: tutto per convincere il loro fratello più giovane a vendere i suoi lapti, peraltro chiamando il moccioso con nome e patronimico.
«Ma, Ivan Terentjevič, entra almeno nel merito della nostra situazione, lo sai benissimo che il nostro popolo non può campare senza i lapti! Vendicene almeno un paio a testa.»
Il giovane invece, nonostante fosse un po’ intimorito, continuò a difendere la sua linea.
«Ho giurato a me stesso d’intrecciare i lapti semoventi e, finché non li avrò realizzati, non uscirò dal bagno-russo dove lavoro.»
Si fece avanti il vecchio mastro-sellaio e disse: «I tuoi lapti, Ivanuška, sono diventati da tempo semoventi. Camminano da sé. Non devi neppure portarli al mercato per venderli.»
«Allora è tutta un’altra cosa» – disse il giovane mastro. Disse e cominciò a tirare fuori dal vecchio bagno-russo i lapti.
«Prendete pure, gente, i più adatti ai vostri piedi. Li vendo ad un prezzo onesto. A quanto li valuta il cliente. Babbo caro, incassa. Ne ho un paio ancora da intrecciare. Il sole è al tramonto. Dovrei finire il mio compito di oggi.»
In un primo momento la gente si buttò indiscriminatamente sui lapti per prendersi le paia che voleva, ma il vecchio mastro-sellaio non lo permise: si mise personalmente a distribuirli ad ognuno. Chi chiedeva cinque paia, ne riceveva due, chi ne domandava due, ne portava via un paio solo.
«Un solo mastro non riesce a fornire i lapti al mondo intero. Tutti vorrebbero farsi vedere con ai piedi un paio di bei lapti come questi!»
Il vecchio mastro-sellaio divise tutti i lapti. La gente riempì di monete una bisaccia, che diventò pesante da sollevare da terra. I fratelli maggiori per tutto il tempo rimasero immobili per la paura e la vergogna, tanto da non riuscire ad alzare lo sguardo per guardare negli occhi il padre. Si avvicinò a loro il vecchio mastro-sellaio e, rivolgendosi al secondo dei fratelli, disse: «Non solo gli arcioni da selle possono essere piegati per diventare semoventi, ma anche, come vedi, si intrecciano con mani abili i lapti semoventi, così come possono essere segate assi di legno semoventi e modellato vasellame semovente d’argilla.»
Questa lezione entrò bene in testa ai fratelli maggiori, facendoli dapprima riflettere a lungo, per poi mettersi a lavorare sodo.
Passarono giorni, settimane o mesi, ma una cosa è certa: le assi di legno del fratello maggiore diventarono semoventi, come divenne semovente anche il vasellame del secondo dei tre fratelli.
Gli acquirenti strappavano le assi di legno da sotto la sega. Per prendere il vasellame non attendevano che si freddasse. E, per quanto riguarda i lapti, non c’è neppure da parlarne.
Da allora i tre fratelli vissero come gente altamente rispettata. Ogni cosa andò a gonfie vele, come se fosse semovente. Come vada a voi – lo potete sapere solo voi stessi. Io, quel che non so, non posso sapere.
[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]
Calzature ricavate dall’intreccio di striscioline di fibra di tiglio.