A volte, quando era libero da impegni di lavoro, mio padre mi tratteneva più a lungo. Voleva ch’io gli ripetessi la Storia e le Scienze oppure mi chiedeva di riguardare gli esercizi di analisi logica. Allora i pensieri tetri mi riprendevano, mi sentivo vittima di un potere oscuro e ostinato che mi impediva ogni libertà; e certo io dovevo guardare con occhi d’odio mio padre, che mi si opponeva spietatamente continuando a interrogarmi. Lui era senza dubbio più forte di me ed io non avrei avuto la meglio se lo avessi colpito. Pertanto il linguaggio del mio corpo doveva limitarsi al rossore del viso, agli occhi feroci, le mani dietro la schiena chiuse a pugno, i piedi che non potevano star fermi in un sol posto. Sono convinto che mio padre mi capiva perché a un certo punto decideva di sciogliere la tensione del momento, che in lui sarebbe diventata sadismo e in me pulsione parricida, se si fosse prolungata più oltre. Mi accarezzava i capelli, guardandomi negli occhi, e mi diceva che potevo andar fuori a giocare coi miei compagni, che ne avevo tutto il diritto, e avrei avuto il tempo, a sera e poi al risveglio l’indomani mattina, di ripetere qualche nozione male appresa nel pomeriggio. E a mia madre che, vedendomi uscire di casa, si meravigliava ch’io avessi già finito i compiti, mio padre diceva: “Lascialo andare, è un ragazzo ed ha bisogno di giocare!”.
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