Belfiore, il segno lieve del pensiero, il graffio ironico della vita

Ora da più di due anni Gianfranco collabora a “Presenza Taurisanese”, il periodico che dirigo da trentanove anni. Io gli mando il mio editoriale e lui lo illustra con una vignetta. Lui tiene a definirsi un illustratore più che un vignettista, ma in fondo anche le vignette illustrano, lo fanno in maniera impudente. Ma se un disegnatore o uno scrittore non è impudente non serve a niente. Rimango sempre sbalordito non solo dalla rapidità con cui lo interpreta ma anche e soprattutto da quel qualcosa che lui ci mette, che non è solo rappresentazione umoristica del mio tema di fondo, ma il completamento di quello che è la ratio dell’articolo. Sicché, oltre a divertirmi, mi offre motivi di riflessione prima sfuggitimi. E capita che io post quem “illustri” con le parole le sue immagini.  

“Presenza” con Belfiore è uscita dal suo angolo di remota provincia. Non che prima fosse qualcosa di diverso. Relativamente alla prima pagina, riservata all’informazione e al dibattito nazionale, quello che era prima delle vignette di Belfiore ha continuato ad essere dopo, ma per quel copyright satirico che evoca i grandi vignettisti: i Forattini, i Giannelli, gli Altan, i Vauro. Il che le dà un valore aggiunto, evidenzia la sua dimensione, che è di foglio localistico, partecipe e teso alla nazione. Una lezione che mi proviene dalla frequentazione degli Alvino di “Voce del Sud”. “Presenza” evidentemente non è il “Corriere della Sera” né “L’Espresso”; ma un po’ lo è. Lo è, se non altro, per la vignetta di Gianfranco.

Belfiore è un disegnatore di gran livello, non solo e non tanto per il tocco grafico, che ha già una sua insita narratività, ma anche e soprattutto per la lettura esplicitata della realtà politica, dissacrante ma garbata. Che è rispetto di un pubblico eterogeneo sotto tutti i punti di vista. La vignetta, modo di esprimersi della satira, è la vetrina di un giornale, fa ridere proprio perché è lo scarto del velo sollevato, che fa apparire quel che altri vorrebbero nascondere e rende complice il pubblico. La satira ha sempre qualcosa di infantile e di dispettoso, che al lettore piace; è il bambino che svela il segreto di famiglia.

Nei trascorsi di Belfiore ci sono esperienze importanti, assai lontane dalla provincia, se si può ancora parlare di provincia in una realtà bruniana in cui tutto ormai è centro e periferia. Non ha prodotto solo caricature e vignette.

Ma è di questo che in un suo libro parla. “La mia – dice – è la visione ironica della vita, non la chiamerei neppure satira, un modo di vedere il mondo con gusto e disincanto”. Non c’è indignazione, che in genere produce rabbia e risentimento, ma divertita comprensione dei vizi nei quali si è tutti compresi. E’ la satira del ridiamo insieme, anche di noi stessi, d’ascendenza oraziana; non ha intenti censori, non punta l’indice contro, lascia al singolo l’intelligenza di autovedersi e di darsi una regolata.

Si capisce perché dopo anni di caricature – ci sarebbe da fare una ricchissima galleria di leccesi e di salentini in “Carrozza” – Belfiore preferisce la vignetta illustrativa, nella quale si esprime il suo humour d’artista di tradizione salentina, sornione e compassato. Espressione consapevole di un’identità culturale che non la mette sul piano dell’inferiorità o della superiorità, né esterna o geopolitica, né interna o sociale. Il che non significa che in lui non ci sia una militanza civile. “Io cerco di scuotere l’acqua stagnante delle idee, troppo spesso sempre uguali e “stantie”, elevando quanto c’è di più buono e di intimo nelle persone che vivono intensamente la vita e che ne conoscono le asperità, i sacrifici e le rinunce”. Così in una sua “autopresentazione” di qualche anno fa. C’è in lui l’etica del ruolo, la consapevolezza di dover stare da una parte, perché si può anche ridere di tutti, ma non tutti, pur senza manicheismi, possono stare dalla parte giusta, vuoi per vocazione, vuoi per condizione.

Ogni tanto Belfiore si ferma, raccoglie la sua produzione ultima e fa come i poeti fanno con le loro raccolte di versi, a cui danno un titolo tematico, o come i cantautori fanno con le loro canzoni, un cd o come ai tempi del vinile si chiamava lp. Nel 2017 diede alle stampe Il filo di un sorriso e il “segno” come parola.

Va da sé che la sua stella polare è la verità. E non potrebbe essere diversamente per un artista e un intellettuale vero, che usa a volte il rovesciamento dei luoghi comuni per mettere a nudo la verità: i politici hanno scheletri negli armadi? Magari è il contrario: sono gli scheletri ad avere dei politici negli armadi. Le cronache politiche e giudiziarie hanno dimostrato come vero quel rovesciamento: i grandi mafiosi hanno nei loro armadi i grandi politici del paese.

Una visione positiva, la sua, che pur nella consapevolezza che la realtà della vita non lascia illusioni incastigate, sprona a osare, incoraggia ad agire, alimenta la speranza, nella sfida continua al termine della quale si può essere pure disillusi e perfino sconfitti ma pronti a ripartire perché la vita non è inerzia e abbandono ma avventura continua. Egli si muove nello spazio filosofico di un epicureismo in cui il piacere di vivere si coniuga con la riflessione e soprattutto con l’accettazione della vita con tutti i suoi misteri, le sue contraddizioni, le sue lusinghe e le sue verifiche.

In questa sua visione Belfiore non si lascia catturare dalle sirene della contemporaneità, dalle sue mode, dai pensieri dominanti. Li considera, certo, ma va oltre; direi va prima, per riapprodare in un mondo dove non c’è spazio per la menzogna, non tanto e non solo per quella subita ma soprattutto per quella pensata.

Da lui, dai suoi disegni, dalle sue illustrazioni nasce l’accettazione evangelica degli altri come se stessi o – se vogliamo – di considerare se stessi come gli altri. In questo Belfiore dà una grande lezione di tolleranza, che non riguarda solo le idee degli altri ma i modi di essere, che è tanto più forte quanto più si basa sulla non condivisione. Una tolleranza non pigramente scontata e recitata, ma vivace e beffardamente compiaciuta, che è la cifra del suo vedere il mondo.

[“Presenza taurisanese” a. XXXIX n. 3 marzo 2021, p. 9]

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