Fra gli illustri precedenti del libro di Marra e Papadia, occorre citare certamente il Rohlfs che nel suo “Dizionario storico dei soprannomi salentini” catalogò molti di essi. Gli agnomi potevano prendere spunto dal nome del padre dell’ “ingiuriato”, e in questo caso si dicono patronimici, oppure dal nome della madre, matronimici. Oppure potevano essere legati a qualche episodio particolare, a qualche evento eccezionale nella vita di coloro che ne erano marchiati. Ancora, potevano scaturire da qualche difetto fisico o mania, abitudine reiterata. Oppure potevano derivare dai mestieri o dal luogo di provenienza, toponimici. Spesso erano causa di ilarità, sarcasmo, a scapito di coloro a cui venivano affibbiati i soprannomi, i quali ne venivano sbeffeggiati. Quello che gli autori vogliono salvare con questa “operazione simpatia”, come potremmo definire il libro in parola, è il patrimonio non solo linguistico ma soprattutto socio antropologico della città galatinese, messo a rischio oggi dal crescente processo di omologazione culturale in corso, nel senso che la globalizzazione, con la sua forza parimenti centrifuga e centripeta, tende ad azzerare le specificità, le peculiarità dei luoghi, le loro tradizioni, per fondere tutto in un una sorta di meltin pot linguistico che è un coacervo, un ibrido senza storia, senza anima; perché ciò che è senza passato è anche senza futuro. Questi modi di dire, racconti, filastrocche, proverbi erano trasmessi oralmente dalla gente prima di venire codificati e raccolti in volume dagli studiosi. Nei secoli scorsi, quando l’alfabetizzazione era ancora scarsa, ci si tramandava a viva voce soprannomi e aneddoti, i cosiddetti “culacchi”, e possiamo ben renderci conto di come gli sforzi di memorizzazione fossero notevoli pure da parte di illetterati contadini. Con l’avvento di Internet poi, molte di queste ricerche sono state informatizzate, e oggi gli archivi sono consultabili on line. Occorre però che ci sia un interesse da parte dei giovani, altrimenti questo materiale resta inerte e non più consultato, dimenticato. Lode al merito dunque di chi rimette mano a queste pinzillacchere, carabattole, magari con nostalgia del tempo che fu, e così facendo, desta curiosità, crea interesse intorno a qualcosa che si sarebbe irrimediabilmente perduto e cioè la memoria di una terra, di una città, un patrimonio di cultura e di identità. Come per dire “ecco, così eravamo”. Lo scenario dei soprannomi è ampio. Come per tutti i nostri paesi e paesini, si tratta di una parte considerevole della storia locale che ha coinvolto nel vivo il popolo minuto, le classi più basse, meno agiate, ma di cui anche quelle più alte serbano memoria. Un libro da leggere insieme, genitori, figli e nonni.
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