Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XXXI

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Obbedire. Durante il recente lockdown, non c’è stato giorno, o quasi, ch’io non sia uscito di casa per un motivo o per un altro (fare la spesa, comprare il giornale, tenere pulito dalle erbacce il fondo in campagna, dar da mangiare agli animali, portare il cane a spasso, ecc.); per necessità, certo, ma anche perché proprio non mi riusciva di obbedire all’ordine di quarantena e starmene a casa.  In giro, nei supermercati, per strada – dove portavo con me anche un certo senso di colpa, oltre che il foglio giustificativo -, neppure un giovane, ma solo adulti e qualche anziano. Le mie giovani figlie sono rimaste in casa per tre mesi e così pure i loro amici. Ne deduco che i giovani sono molto più disciplinati degli adulti, i quali, quando erano giovani, erano molto più indisciplinati dei giovani d’oggi. E non so se questa sia una loro virtù e un nostro difetto, o viceversa.

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La civiltà e il principio originario della vita secondo Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche I, Il linguaggio, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1967 (II ristampa della I edizione del 1961), p. 58: “Infatti, il destino necessario della civiltà è costituito dal fatto che tutto ciò che essa crea nel suo progressivo processo di formazione e di “educazione” ci allontana progressivamente dal principio originario della vita. Quanto più ricco ed energico lo spirito si dimostra nella sua attività formatrice, tanto più questa sua attività sembra allontanarlo dalla sorgente originaria del suo proprio essere. Esso si dimostra sempre più avvolto nelle sue creazioni, nelle parole del linguaggio, nelle immagini del mito e dell’arte, nei simboli intellettuali della conoscenza che gli si dispongono intorno come un velo leggero e trasparente, ma cionondimeno illacerabile. Il compito specifico, più profondo di una filosofia della civiltà, di una filosofia del linguaggio, della conoscenza, del mito, ecc. sembra pertanto consistere precisamente nel togliere questo velo, nel risalire dalla sfera mediata del semplice significare e indicare a quella originaria della contemplazione intuitiva.”

Il che vuol dire che la paideia antica e moderna ha un effetto collaterale inaspettato. Se da una parte, infatti, allontana l’uomo dalla barbarie più ferina (ma è proprio vero?), dall’altra lo allontana “dal principio originario della vita“. Quale sia questo principio non credo che sia un mistero per nessuno: l’uomo vuol vivere, a dispetto di tutto e di tutti gli altri esseri, compreso ogni suo simile. La paideia disciplina tutto questo e, come ogni atto normativo, pone un limite alla indiscriminata rivendicazione vitale dell’individuo, che si viene a trovare continuamente sotto scacco. Di qui l’elaborazione di tutte le strategie (linguistiche, mitiche, filosofiche, ecc.) atte a riaffermare in altro modo quel principio, che in nessun caso può essere negato. La paideia ha dunque un doppio movimento: il primo di risposta alla ferinità indiscriminata dell’uomo (disciplina della forza e della violenza), il secondo di invenzione di un mondo tutto umano, nel quale la disciplina della violenza umana è messa al servizio di una tecnica predatoria sofisticatissima, in grado di nasconde le proprie intenzioni, realizzandosi per vie traverse.

Tutto questo appare chiaro al pensiero critico, ma non al senso comune, che, ignorando le astuzie della ragione, si allontana “progressivamente dal principio originario della vita”.

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Bestiario salentino. La volpe. E’ la colpevole, la reietta, la perseguitata; la vedi che attraversa la strada e scavalca il recinto con un balzo, fuggendo non si sa dove lungo i confini del fondo, dove cresce il roveto. Come sempre, ha mangiato la gallina e diradato l’uva, ed ora le danno la caccia. Il suo covile è nel cavo dell’albero seccato dalla xylella, nel folto del bosco d’olivi inaccessibile, abbandonato alle erbacce. Ma è un covile provvisorio perché l’uomo è dappertutto, come una maledizione. E allora la volpe è sempre mobile, va qua e là per la campagna, come una zingara, portandosi dietro la cucciolata, come una gatta timorosa. D’estate, a notte, beve nelle piscine dei ricchi, rovescia piccoli bidoni d’immondizia oppure sorprende topi incauti e rospi addormentati sotto le foglie. Contende alla gazza carogne di cani, di gatti o di ricci sulla provinciale. A volte la vedi esanime per terra, sul ciglio della strada.

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Cambiamenti cosmici. Scrive Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., p. 136: “Il nostro spazio cosmico infinito, la cui esistenza ci sembra incontestabile, per l’uomo antico non esisteva. Egli non poteva nemmeno rappresentarselo. Per contro, il cosmos ellenico (…) era per l’Elleno l’unica cosa esistente.”

Chi ci dice che, fra qualche evo, non cambierà radicalmente la nostra rappresentazione/percezione dello spazio cosmico infinito?

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La nostra follia. Non c’è nulla di più certo, di più scontato, di più normale, di più ineludibile della morte. Tutto ciò che è intorno a noi sta per morire, tutto ciò che è passato è morto, il futuro stesso ci riserva solo morte. Gli imperi degli uomini sono decaduti e sono morti, interi mondi sono tramontati e sono estinti, un infinito numero di stelle si è spento. Se c’è qualche certezza per noi umani, qualcosa di cui nessuno può dubitare è che tutto muore. Eppure noi abbiamo paura della morte. Non sta precisamente in questa paura tutta la nostra insensatezza, la nostra follia?

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La frana del tempo. Trovo scritto nel mio diario: “Se vuoi avere l’illusione di vivere più a lungo, devi rallentare il ritmo dell’esistenza”.

Non c’è dubbio ch’io tema il franare del tempo e ricerchi un modo per contenerlo. La scrittura di un diario forse è anche indizio della frana e della “rete di protezione” con cui cerco di trattenerla. Ripenso a quando scrive Sterne sul diario, che cioè esso insegue la vita senza mai raggiungerla. Vorrebbe trattenerla, ma siccome non la raggiunge mai…

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La Sirenetta. Ne parla Valentina Prosperi, Permanenza di un mito tendente alla metamorfosi, in “Alias-Il Manifesto” del 26 gennaio 2020, p. 6: “… la celeberrima “Sirenetta” danese perde invece il suo stucchevole sapore edificante quando la si decifri come la trasparente confessione a chiave dell’omosessualità dell’autore. Nella storia della non-donna che deve tacere i propri sentimenti e soffrire a ogni istante come prezzo per godere della vicinanza dell’amato, Andersen adombrava il suo amore impossibile per l’amico Edvard Collin, che si sarebbe poi sposato, come il principe della favola.” L’articolo è una recensione al libro di Elisabetta Moro, Sirene. La seduzione dall’antichità ad oggi, Il Mulino, Bologna 2019.

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Filosofia e scienza moderne: la grande esplosione. Leggo in Emanuele Severino, Téchne, Rusconi, Milano 1988, p. 89: “La nascita delle scienze moderne è dovuta a un progressivo distacco da una matrice comune, la filosofia. Esiste una certa somiglianza tra l’ipotesi che concepisce l’universo come il risultato dell’esplosione di un centro di energia originaria che si frantuma in una miriade di costellazioni e di mondi allontanandosi a velocità vertiginosa dal loro comune luogo d’origine, e la costatazione storica dell’esplosione dell’antica saggezza filosofica dell’Occidente e del frantumarsi di questa saggezza in una molteplicità di scienze che si allontanano vertiginosamente dal senso originariamente posseduto dalla parola “scienza”. Ma il distacco delle scienze moderne dal loro comune luogo d’origine non avviene, come nell’esplosione cosmica, simultaneamente, bensì un poco alla volta, in una successione che è aperta dalla fisica e che per ora è chiusa dalla sociologia.”

Il processo di allontanamento delle scienze moderne dal “senso originario posseduto dalla parola ‘scienza’” è ancora in corso e probabilmente continuerà fino a quando l’uomo non avrà perduto completamente di vista l’orizzonte filosofico che finora lo ha orientato. Infatti, Severino non avrebbe potuto scrivere le parole citate e neppure tutti i suoi libri, se non fosse stato dentro questo orizzonte. Il “centro di energia originaria”, costituito da quello che i greci chiamavano epistème, non è mai venuto meno, almeno non in quei rari uomini che possono essere definiti filosofi; esso, pur avendo prodotto l’irradiamento delle scienze che pervadono il mondo e sempre più vanno confondendosi con le varie applicazioni tecniche, non cessa di costituirne la coscienza critica, di definirne il limite, salvaguardando così il pensiero da una deriva scientista.

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A che serve una biblioteca. Nassim Nicholas Taleb, economista, saggista e filosofo, nell’intervista rilasciata ad Eugenio Occorsio, L’emergenza, “La Repubblica” del 5 marzo 2020, p. 13, ricorda “il mio amico Umberto Eco che mi raccontava quanto si irritava quando mostrava la sua biblioteca e puntualmente gli chiedevano: “Ma li ha letti tutti?” senza capire che una biblioteca è uno strumento di ricerca da usare per capire in profondità come va il mondo.”

Nel corso della mia vita ho radunato migliaia di libri, molti dei quali ho regalato alla biblioteca pubblica e a quella scolastica per mancanza di spazio. A volte penso che siano i libri a cercarmi, a bussare alla mia porta, chiedendo di entrare. Sento il loro richiamo, rovistando tra la polvere dei mercati dell’usato, in una libreria, in un catalogo online. Essi bussano e io li faccio entrare, ben sapendo che nella mia vita, per quanto lunga possa augurarmela, non riuscirò mai a leggerli tutti. Ma è come se essi mi dicessero: non ti preoccupare, dacci una collocazione, mettici a riposo: un giorno, prima che tu abbia chiuso gli occhi, potremmo esserti utili; e dunque, perché dovresti privarti già da ora di una simile chance?

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