Fokà, testa quadrata, capomastro dello Stato

Il primo giorno si consigliarono, il secondo approvarono e disapprovarono, il terzo finalmente promulgarono un decreto.

«Noi, Zar Tonto Terzo, Sovrano savio, Signore-Padrone dello Stato e di tutto il campo di piselli, l’Unico Grande Imperatore, ecc. ecc., decretiamo che il contadino servile, Fokà Fannullone dovrà crepitare notte e giorno con il crepitacolo sul campo di piselli, in modo da spaventare le cornacchie.»

Fokà arrivò sul campo di piselli e non lo vide verde, ma nero-nerissimo per la marea di cornacchie nere. Acchiappò qualcuna di quelle ladruncole alate e si mise a costruire delle gabbie con le ruote, di quelle per gli scoiattoli. Come quella che aveva visto nel castello dello zar, dove, dentro la gabbia, uno scoiattolo correva all’interno di una ruota, facendola girare veloce veloce. Sulle ruote che aveva costruito, Fokà sistemò dei crepitacoli e mise dentro ad ogni ruota della gabbia, invece dello scoiattolo, una cornacchia.

Le cornacchie giravano le ruote, le ruote con i crepitacoli crepitavano e più forte diventava il crepitio, e più veloce la cornacchia impazzita saltava dentro la ruota; a se stessa e alle altre cornacchie metteva una gran paura. Il campo si schiarì. Le cornacchie ebbero paura di volare persino vicino al campo. Il primo ministro-consigliere, Cranio Vuoto, arrivò per controllare come il decreto dello zar venisse attuato.

Ma cosa succedeva? Sul campo non c’erano né Fokà, né le cornacchie. Soltanto i crepitacoli continuavano a crepitare, non tacevano. Le cornacchie nelle gabbie spaventavano le altre cornacchie. Incredibile!

«E’ proprio così, sua altezza-saggezza reale, Tonto Tontovič. Sono le cornacchie stesse che spaventano le altre cornacchie, mentre Fokà Fannullone sta in casa a sbrigare le sue faccende domestiche. Il popolo oramai ha nominato Fokà Fannullone – Testa Quadrata e al contadino servile rende gli onori. Che impertinenza!»

Ma al Tonto piaceva, sia pur in peggio, che si facesse come voleva lui. Non poteva soffrire alcuna novità. Temeva le novità, come uno scarafaggio teme la luce. Negli altri regni, per esempio, da tempo mangiavano usando le forchette, lui invece usava le cinque dita, come suo padre, come suo nonno e il suo bisnonno. D’estate per spostarsi usava ancora la slitta per la troppa paura che aveva persino dello scricchiolio delle ruote di una carrozza. Era uguale e preciso a suo padre Testa di legno.

Tonto, inoltre, nutriva il timore, che si facesse vivo nel suo regno qualcuno di molto più sagace ed intelligente di lui. Sarebbe mai pensabile, che qualcuno fosse più sagace ed intelligente dello zar?

Si infervorò, Tonto, si mise a pestare i piedi e gridò: «Ordino a Fokà Fannullone di raccogliere tutti i piselli dal campo in una sola notte!»

Fokà ricevette la disposizione reale, attaccò al cavallo un erpice e erpicò i piselli del campo sino all’ultima pianticina, rastrellò tutto insieme, formandone un grande cumulo.

Alla mattina andò dallo zar a portargli il suo omaggio: «Ho eseguito, zar Tonto, il tuo ordine esattamente come mi avevi ordinato.»

Ascoltandolo, lo zar Tonto si arrabbiò assai più del giorno prima: «Dove si è mai visto? Strappare dal campo tutti i piselli! Un lavoro che nemmeno duecento contadini riuscirebbero a sbrigare in una settimana. Questo qua ci è riuscito in una notte sola! Ordino a te, contadino servile, di sgranare in soli due giorni tutti i piselli!»

Fokà ripulì l’aia tonda. Distribuì per l’aia in uno strato tutto il cumulo delle piantine di piselli. Ci fece andar sopra dei cavalli. I cavalli camminarono in cerchio e sgranarono i piselli dai baccelli con gli zoccoli.

«Ho sgranato i piselli, sire. Ordina pure di controllare.»

Il viso dello zar impallidì come un cencio lavato. Il labbro, dalla stizza, cominciò a pendere come quello di un vecchio ronzino. Era lui che voleva far fare a Fokà una brutta figura, assegnandogli un’incombenza impossibile. Invece era stato Fokà a meravigliare la gente, ad umiliare lo zar e a rendere celebre se stesso. Continuando in questo modo, poco ci mancava che venisse spodestato dal trono.

Lo zar decise di finire Fokà una buona volta per sempre con un compito superiore a qualsiasi forza, quindi gli ordinò: «Ventila tutti i piselli sgranati nel giro di due giorni!.. E che siano puliti!.. Ed inoltre, non ammetto che vi sia dentro neanche un solo bruscolino!»

Fokà si impensierì. Non era una faccenda facile far ventilare tutti quei piselli. Nel regno dello zar Tonto i piselli venivano ancora ventilati in modo antiquato: da un pugno si facevano scorrere lentamente nell’altro pugno soffiando, soffiando a più non posso. Nel soffiare si toglievano le impurità e le pellicine secche.

Se Fokà avesse dovuto ventilare tutti i piselli così, non gli sarebbe bastato un anno intero. In più, da dove avrebbe potuto prendere un uomo tutto da solo un fiato tanto forte e potente?

Fokà stese per terra la sua palandrana, si distese sopra su un fianco e si mise a riflettere.

In una testa intelligente il sole non tramonta mai, resta lucido e chiaro. Se la mente è tenace, il vento è incapace di soffiarla via; al limite potrebbe sussurrarle dentro un po’ della sua tenacia.

Così accadde. Fokà era un vero maestro ad ascoltare le chiacchiere e i sussurri del vento. Carpì un segreto su come avrebbe potuto ventilare in soli due giorni tutti quei piselli.

Fokà si mise a lavorare prima dell’alba; salì in cima al tetto spiovente del castello reale, approntò, dall’alto verso il basso, uno scivolo di legno. Mise una fila di assi sottili sul tetto, in modo che i piselli rotolassero direttamente nello scivolo e cominciò a portare sul tetto i sacchi di piselli sgranati e a rovesciarli da sopra sulla copertura spiovente.

I piselli rotolarono da tutte le parti per il tetto spiovente del castello reale, ma delle sottili assi di legno alle fiancate li convogliarono dritto dritto dentro lo scivolo. I piselli correvano nello scivolo e si raccoglievano a tutta velocità dentro il deposito di piselli dello zar e mentre rotolavano il vento ventilava dai piselli ogni impurità.

La gente giù fece ressa, discusse vivacemente e sentenziò apertamente.

«Sono uomini come questo che devono governare il paese!»

«Bravo Fokà Testa Quadrata: sei una cima in tutti i mestieri!».

Il popolo fece così tanto baccano che svegliò, prima del pranzo, lo zar Tonto, che si affacciò alla finestra, vide i piselli che ventilavano al vento e che per la velocità del rotolamento si raccoglievano dentro i depositi di piselli del suo castello. Fokà, invece, stava sdraiato su un fianco a poltrire sul tetto e solo di tanto in tanto spostava lo scivolo da un deposito ormai pieno a un deposito vuoto.

Lo zar Tonto gemette dal rancore. Triturò, masticandola dalla rabbia, una manica dell’abito di broccato di seta; poco ci mancò che per la troppa collera non si soffocasse con un bottoncino intarsiato. Ordinò di riunire nel castello, al suono delle trombe e rulli di tamburi, tutti i suoi ministri-consiglieri dei dicasteri. Tutto quel fracasso mise in allerta il popolo del regno. I ministri-consiglieri deficienti dello zar Tonto corsero a perdifiato nel castello, davanti al quale il popolo navigato e sveglio affollava la piazza. Il popolo esaltava Fokà, Testa Quadrata, e contemporaneamente assimilava la sua ottima inventiva.

La luce del sapere ferisce sempre gli occhi dei deficienti. L’intelligenza altrui fa venir un gran mal di testa alla gente stupida. Il consiglio, consigliandosi, consigliò un nuovo decreto.

«Noi, Zar Tonto Terzo, Sovrano savio, Signore-Padrone dello Stato e di tutto il campo di piselli, l’Unico Grande Imperatore, ecc. ecc., ordiniamo al contadino servile Fokà Fannullone di ridurre in farina, pestandoli, tutti i piselli nel giro di una settimana.»

Il popolo si rabbuiò e Fokà si angosciò. Aveva anche lui il suo campo d’avena matura da raccogliere, la sua segale d’oro da mietere.

Andò un’altra volta sul campo ad ascoltare i sussurri del vento, passò una notte sulla palandrana, pensando a come trovare dei lavoratori gratuiti.

La notte era molto ventosa. Gli alberi oscillavano da una parte all’altra. Fokà osservava tutto e se lo ficcava bene in testa. E si ficcò soprattutto in testa quello che interessava a lui.

La mattina dopo i servitori dello zar portarono a Fokà dei grandi mortai e dei grossi pestelli.

«Adesso pesta i piselli! E se dovessimo vederti oziare, finirai male!»

Peggio di cosi! Figuriamoci: ridurre in farina i piselli di tutti quei depositi dello zar, pestando tutto da solo, con due mani! Ma Fokà non si mise a pestare i piselli con le mani. Costrinse gli alberi a fungere da prestanti pestatori al posto suo.

Fokà tirò da un albero ad un altro una corda. In mezzo alla corda legò un pestello, sotto mise un mortaio che riempì di piselli. E così ne sistemò un altro e un altro ancora: sistemò in questa maniera tutti i mortai che aveva.

Gli alberi oscillavano da una parte all’altra e così facendo tiravano la corda e la rilasciavano. Perciò il pesante pestello si abbassava e si sollevava; intanto, così facendo, pestava i piselli. Fokà, nel frattempo, mieteva il suo grano-segale, coglieva la sua avena matura. Di tanto in tanto toglieva dai mortai la farina di piselli pronta, riempiva i mortai di piselli interi e nuovamente tornava ai lavori arretrati di casa sua.

Con brio e con allegria i prestanti lavoratori gratuiti pestavano i piselli. Per il bosco echeggiava soltanto un gaio battere. Il popolo festeggiava ed esaltava Fokà, mandava petizioni per onorare la sua scienza, a lui assegnava la nomina a prima Testa Quadrata di tutte le teste quadrate del regno ed adottava i suoi pestelli autopestanti nel proprio lavoro.

Invece i servi dello zar corsero da Tonto con una delazione: «Sua Maestà, Sovrano Savio! Il Tuo contadino servile, Fokà, si spaccia per molto intelligente e cerca di superare un Grande Zar come Te, sia nella mente sia nella ragionevolezza. Nel bosco questo popolano sfacciato ha sistemato dei pestelli autopestanti. Il Tuo ordine, Savio nostro Zar Tonto, è riuscito a sbrigare per tempo, quel contadino miserabile!»

Gli occhi del Tonto si iniettarono di sangue. Fuori di sé dalla rabbia, scosse la testa tanto forte che la corona gli volò fuori dalla finestra e rotolò sotto uno dei suoi depositi di piselli.

«A morte Fokà! A morte! Non so escogitargli un’esecuzione più idonea. Fiato alle trombe, rulli di tamburi, indico per subito un consiglio dei miei ministri-consiglieri!»

Un’altra volta suonarono le trombe, rullarono i tamburi, da tutto il regno accorse il popolo in massa sulla piazza, i ministri-consiglieri deficienti accorsero come pazzi così come si trovavano a letto, coi lunghi mutandoni, infilandosi, strada facendo, gli stivali sui piedi scalzi: «Qual è la Tua volontà, nostro Zar Savio, Tonto Tontovič?»

«Trovatemi subito, ministri-consiglieri, un’orrenda pena capitale per il contadino servile Fokà Fannullone.»

Qui, il ministro Cranio Vuoto si grattò la testa vuota e disse: «Serenissimo zar, Tonto Tontovič! Nel nostro regno i lupi la fanno da padroni, hanno scannato tutte le pecore. Ordina a Fokà di scacciare dal regno tutte queste grigie bestie feroci. Così, sperando nella provvidenza, lo sbraneranno i lupi stessi.»

«E bravo, Cranio Vuoto, vedo che hai un cranio come si deve sulle spalle!» disse lo zar Tonto. «Con tutti i ministri-consiglieri ci si poteva consigliare e riconsigliare, pensare e ripensare per mesi e mesi, ma un’esecuzione migliore di questa, non si sarebbe potuta mai trovare. Redigi un decreto.»

Il popolo apprese il contenuto del decreto. Comprese che lo zar Tonto, nella sua ignoranza buia, voleva castigare Fokà, Testa Quadrata, per la sua mente chiara e lucida. Il popolo si mise a confabulare, a cercare di trovare un accordo, a confrontare le proprie idee e a coalizzarsi. Presi separatamente gli uomini sono gocce di pioggia, tutti uniti, invece, sono come le acque primaverili del disgelo. Una forza potente! Che spazza via il più duro e insidioso ostacolo!

«Gente, bisogna aiutare Fokà» – dissero i popolani parlando tra loro. «Dicci, Fokà Testa Quadrata, in che cosa ti possiamo essere utili?»

«Aiutatemi» – rispose Fokà, – «vi prego, bravi uomini! Mi servirebbero un paio di decine di lupi vivi. Intanto mi metto a cucire dei panciotti rossi, a miscelare una tintura rosso-fiamma e a fare dei campanellini e dei sonaglietti.»

«E a cosa ti servirà?»

«Lo vedrete» – rispose Fokà.

Gli uomini del popolo riuscirono a catturare venti lupi e a portarli vivi a Fokà, chiusi in dei sacchi di tela.

Fokà vestì i lupi coi panciotti rossi, dipinse i loro musi di una tintura rosso-fiamma, legò loro sotto la pancia dei campanellini, sulle code infilò i sonaglietti a collana, gli attaccò pure qualche piuma di gallo e li lasciò liberi.

I lupi corsero verso i loro branchi, invece i lupi dei branchi si misero a correre come dannati per sfuggirli. Si spaventavano per i musi rossi. Temevano per loro natura la tela rossa con cui Fokà aveva cucito i panciotti. Invece il tintinnio dei campanellini e dei sonaglietti, per il loro udito era peggio del fragore degli spari di un fucile. I branchi di lupi corsero nel folto dei boschi, ma i lupi di Fokà non restavano dietro ai loro fratelli e aumentavano la velocità della corsa. Volevano scappare dal tintinnio terribile che loro stessi producevano. Volevano sbarazzarsi delle code, scappare dalle code. E come si scappa? In una sola notte, neanche un lupo rimase sulle terre del regno. Intanto Fokà falciava il suo campo d’avena e arava un lembo di terra per seminarlo a grano vernino.

Lo zar divenne del tutto irriconoscibile. Un lupo al suo confronto sarebbe passato per una pecorella. Triturò ambedue le maniche del suo abito di broccato masticandole dalla rabbia. Preso dall’’ira cominciò perfino a cavare fuori le pietre preziose dall’incastonatura della sua corona.

«Senza consigli e decreti, Fokà, il contadino servile, avrà la pena capitale che si merita. Sul patibolo! Ma in che modo dare l’annuncio al popolo? L’intera faccenda potrebbe rivoltare contro me stesso. Bisogna inventargli una colpa e conformarla alla legge!».

Il ministro-consigliere, Cranio Vuoto, gli era già vicino: «Eppure, Vostra Maestà Savia, Tonto Tontovič, anche se sono solo Cranio Vuoto, una legge così potrei conformarla facilmente, in quanto Fokà, quel contadino servile, ha disonorato lo stemma del nostro regno.»

«Di quale stemma parli?»

«Ma come, sire! Sul nostro stemma un lupo con la corona trascina una pecora per la collottola. Le pecore sono state scannate e sbafate dai lupi, i lupi, invece, Fokà li ha scacciati via nelle terre straniere. Adesso siamo un regno con un falso stemma. Non abbiamo né lupi, né pecore. Cosa diranno di noi gli altri regni?»

«Ohi, Dio mio! Ma tu hai nel tuo cranio più rotelle dei piselli di tutti i miei depositi di piselli. Prepara il decreto per l’esecuzione. Ordina al boia di affilare la scure e ai sottufficiali dei cosacchi della guardia di montare un patibolo al centro della piazza. Annuncia un’esecuzione capitale per domani.»

Sorse l’aurora. Si levò il sole, rosso, luminoso. Portarono Fokà all’esecuzione. La sposa di Fokà disperata, era esanime. I poveri figlioli di Fokà si sentirono ormai orfani del padre.

Molto in alto alzò il boia la sua scure. Si allargò il cuore dello zar Tonto. Diede un fendente la scure del boia sul grosso nerboruto collo… e si piegò.

«Ma cosa succede, zar?» – domandò Fokà davanti a tutto il popolo. «La tua scure non mi stacca la testa dal collo!»

Il popolo a questo punto sapeva già tutto, stava facendo chiasso, rideva fragorosamente.

«Impiccatelo! Strozzatelo con un nodo forte del cappio!» – ordinò il Tonto.

Piantarono nella terra un palo per forca. Il boia mise al collo di Fokà un cappio di corda. Con una pedata forte buttò giù, da sotto i piedi di Fokà, un ceppo di betulla. Le giovinette strillarono, le popolane adulte si lamentarono, le vecchie urlarono. Ma la corda si spezzò.

«Ma cosa succede, zar?» – disse Fokà. «La tua corda non tiene il peso del mio corpo.»

Impallidì più bianco della neve lo zar Tonto, seduto dentro la sua portantina. La faccia del ministro del dicastero dell’agricoltura, Cranio Vuoto, divenne rosso-ruggine. Ammutolirono tutti gli altri ministri-consiglieri.

«Affogatelo!» – urlò lo zar Tonto. «Buttatelo nel fiume!»

Sogghignò a queste parole Fokà e proferì: «Ma come si potrebbe affogare un uomo che ha dalla sua parte l’intero popolo?!»

Misero al collo di Fokà un grosso sasso, gli stessi uomini che avevano messo nella mano del boia una scure falsa di cera e avevano anche legato una corda marcia alla forca.

Appesero questa volta gli uomini al collo di Fokà, invece di un sasso vero, un sasso finto, fatto di corteccia di pino, misero sotto la sua camicia un paio di vesciche gonfiate di toro, camuffate da sacchetti di sabbia e buttarono Fokà – Testa Quadrata, nel fiume.

Le popolane strillarono, si lamentarono di nuovo. Ma Fokà, nuotando sopra le acque, gridò allo zar dal fiume: «Ma cosa succede, zar Tonto, i tuoi sassi sono tanto leggeri che galleggiano e i sacchi di sabbia non mi trascinano sul fondo?»

Dapprima il Tonto divenne verde di rabbia, poi si scurì tanto che divenne nero. A questo punto il figlio-zarevič di Tonto Tontovič voleva giustiziare Fokà col fuoco, ma il Tonto stesso si infiammò dall’interno, emise un fumo nero e si bruciò tutto senza lasciare neppure le ceneri.

C’era lo zar e ora lo zar non c’era più.

Il popolo esultò. Il popolo cantò. Le campane suonarono a festa. Celebrarono i gran maestri lavoratori. Nominarono Fokà, Testa Quadrata, Capomastro dello Stato.

Fokà cominciò a vivere una vita felice. Nell’onore e onorato. Rese celebre con l’intelligenza lo Stato e dopo di sé lasciò un’allegra favola.

Questa!

[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]

Questa voce è stata pubblicata in Favole, fiabe e racconti di Evgenij Permjak, I mille e un racconto e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *