Il timore e la paura motivano inoltre gli eufemismi per malattie inguaribili (un tempo interpretate come punizioni celesti) di cui non si osa pronunziare il nome: la peste fino al diciottesimo secolo o la tubercolosi nel diciannovesimo secolo. L’attuale situazione pandemica ha rimesso in circolo, con intenzioni opposte a quelle eufemistiche, parole come peste e pestilenza, usate per sottolineare la virulenza dell’infezione che attanaglia il mondo. Di tisi, termine medico per indicare la tubercolosi polmonare, muoiono protagoniste di opere liriche: di tisi muoiono Violetta nella «Traviata» (1853) di Verdi (ecco un altro eufemismo, «traviata» per indicare ‘prostituta’) e Mimì nella «Bohème» (1896) di Puccini. «La contessina Bice spegnevasi lentamente. Di malattia di languore, dicevano gli uni. Di mal sottile, dicevano gli altri», scrive Giovanni Verga all’inizio della novella Dramma intimo (1891), utilizzando due eufemismi (malattia di languore, mal sottile) per non nominare la malattia mortale. Nella vita reale di tubercolosi si consumano artisti come Cechov, Chopin, Kafka, Emily Brontë, Keats, Pergolesi, Orwell. Gozzano così parla dei suoi medici curanti, con dolorosa ironia: «Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,/ m’auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro./ E senton chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo? / Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli…». Oggi al posto di «cancro» vengono utilizzate spesso espressioni meno dirette come «carcinoma», «tumore» per non presentare brutalmente al paziente realtà sgradite; fuori dal contesto specialistico allusivamente si dice «brutto male» o, in maniera ancor più sfumata, «quel male».
In questa rubrica abbiamo già parlato dell’ambito-tabù di “morire e morte”, che genera espressioni addolcite come «ci ha lasciato», «se n’è andato», «è passato a miglior vita», «ha reso l’anima a Dio», «è scomparso», «è deceduto»; ai bambini si dice che una persona «è volata in cielo» o «è andata in paradiso». Più volte abbiamo trattato del cosiddetto politicamente corretto, che si articola in forme varie che riguardano le parole giuste da usare per indicare minoranze etniche, immigrati, persone di vario orientamento sessuale, persone con disabilità. Dunque non ci ripeteremo. Da un desiderio generale di esprimere riguardo verso il prossimo scaturisce anche la tendenza a valorizzare i mestieri attraverso termini eufemistici. Le sostituzioni di «bidello» con «collaboratore scolastico» o quella di «spazzino» con «operatore ecologico» paiono eccessive. Le denominazioni professionali con «operatore» sono davvero tante. Accanto alle consuete, in cui il sostantivo operatore è accompagnato da aggettivi come cinematografico, medico, giuridico, economico, culturale, sociale, si sono generate «operatore telefonico» per ‘centralinista’ e «operatore sanitario» per ‘portantino’. Forse per un calco scherzoso di tipo burocratico è nata l’amplificazione «operatrice del sesso» per ‘prostituta’.
In alcuni casi la sostituzione e la modifica lessicale della denominazione avvertita come troppo esplicita o troppo cruda non è legata a motivi di rispetto reciproco, di autostima o di non-accettazione sociale di una realtà sgradita. Possono prevalere ragioni di profitto e di beneficio, personale o altrui, che ingannano il destinatario del messaggio, favorendo interessi allotri (anche involontariamente). Abbiamo già visto quanto inopportuno sia l’uso della parola «furbetto» per indicare chi compie illegalità varie come l’assenteismo ripetuto e immotivato dal lavoro, operazioni finanziarie illecite, indebiti tentativi di appropriazione dei vaccini destinati ad altri: questi non sono furbetti, sono criminali o delinquenti, qualifichiamoli con il nome che loro spetta. In Nuovo Quotidiano di giovedì 28 gennaio, leggo due articoli che ricorrono nella medesima pagina. In alto: «Un chilometro di inciviltà. “Criminali vi fermeremo”. Un’enorme discarica di rifiuti nella campagne ai confini con Neviano». Più in basso: «Lotta agli sporcaccioni. Beccati e multati altri 12. Anche il 2021 inizia con gli abbandoni selvaggi di spazzatura per opera degli sporcaccioni di turno». Chi abbandona selvaggiamente rifiuti danneggia l’ambiente e minaccia la salute altrui. Dunque non è uno sporcaccione (‘persona alquanto sudicia, trascurata, trasandata’ scrivono i vocabolari); è un inquinatore, altera le caratteristiche e l’equilibrio dell’ambiente naturale con sostanze nocive, rendendolo inadatto alla vita umana, animale e vegetale. Dunque è un criminale (come dichiara, correttamente, il primo titolo del nostro giornale che abbiamo riportato).
Basta eufemismi impropri, usiamo le parole giuste, qualificheremo meglio la realtà delle cose.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 14 febbraio 2021]