di Paolo Vincenti
Docente, letterato, scultore. Leandro Ghinelli (1925-2015), nato a Firenze ma salentino d’adozione, è stato un intellettuale poliedrico, multiversato, di quelli che forse a cagione di una enorme inventiva e della eterogeneità dell’ispirazione, a volte mancano di grandissimi riconoscimenti. Infatti, egli, pur appartenendo cronologicamente alla generazione del dopoguerra, non può essere assimilato a nessuna corrente artistica salentina o categoria letteraria ben definita, secondo il concetto inteso da Oreste Macrì di comune matrice archetipica, ideologica, metodologica, ambientale e amicale. Se cioè dovessimo seguire la teoria generazionale formulata dal grande critico letterario (che compì al contrario il percorso di Ghinelli: da Maglie a Firenze), potremmo dire che in quel milieu che connota studiosi e artisti di una certa temperie culturale Ghinelli non rientra. Questo è sicuramente un vantaggio, perché per lui, come per altri oriundi salentini, non si corre il rischio di chiusura provinciale, più chiaramente di quel vieto provincialismo che condiziona gli studi di certi eruditi troppo autoreferenziali, né, di converso, di stucchevole, quasi estatica, acritica ammirazione per il territorio che sovente irrora l’ispirazione dei visitatori stranieri. Ghinelli cioè si pone a metà via, fra l’amore unito alla gratitudine per questa terra che lo aveva accolto, e la consapevolezza dei suoi (di essa) limiti; lontano, sia nell’espressione artistica che in quella letteraria, dalla maniera, intendendo con questo termine tutto ciò che di specioso, affettato, ridondante, scontato, venga prodotto dalla gonfiezza del cuore.