Per una poetica dell’implicazione in Paolo Vincenti

Delle sue opere: se ne parla ad ogni Presentazione nei cenacoli diretti da commentatori invitati, tra cui figurano nomi che non sai se danno spessore a Vincenti o se è Vincenti che li recupera nel mercato delle militanze culturali scegliendoseli dalla sua bottega di rigattiere, in cui si ammonticchiano saperi disordinati che pure devono avergli scalfito l’anima. Da qui, la tentazione di considerare non i diversi volumi pubblicati da Paolo Vincenti, ma l’Opera in cui è venuta travasandosi interamente e integralmente la sua esperienza intellettuale e la sua pratica poetica. Cercare insomma quell’unica ispirazione e quell’altrettanto unico respiro versificante che ritengo possano condurci al chip essenziale di Vincenti, a condizione che si attraversino quegli spicchi inesplorati del territorio Salentino di cui il Nostro vuol essere testimone istruito, voce di un Salento classicheggiante. Di certo nei volumi di Vincenti ci sono indizi più che sicuri che indicano quanto a tenerli sincronizzati sia una orchestrazione che rende unitaria la loro narrazione. Non se ne ha, insomma, una percezione di raccolte differenti e distanti almeno quanto neanche le parti interne a ciascun volume potrebbero mai risultare differenziate e distanti, solo perché tali possono apparire per la distinzione dei titoli assegnati a ciascun intervento. Occorrerebbe invece guardare ad ogni singolo volume come ad un pezzo musicale che richieda esecuzioni in chiave di violino o di basso oppure che abbia un ritmo andante o allegro, così da trattenere le diverse parti in una strutturazione che fa pensare al genere dell’Egloga. La quale ipotesi non dovrebbe sembrare del tutto avventata considerato che Vincenti si mantiene nelle prossimità del mondo culturale che ha forgiato quel genere e del quale rimane fedele cantore. 

Della sua scrittura: sono ancora pochi i commentatori che ne hanno penetrato la parte sonora e misteriosa, rimanendo persuasi che nel vagabondare transtorico della lingua che Vincenti usa per ricavarne assonanze e impressioni, produce espressioni archeologiche in cui trovi tutte intere sia la miniera delle parole concrete del suo incrostato ellenismo che il repertorio dei suoni antropici che può capitargli di percepire attraversando i paesaggi salentini. Ma accade anche che, quando tace il palco della messinscena teatrale proposta con Euripide, le parole che sceglie fanno emergere silenzi covati sotto le voci dei cori. Ed è allora che bisogna saper ascoltare la poesia che Vincenti produce per tutto il tempo che l’ouverture accompagna la sua Opera unica. Sono silenzi che trovi, che puoi trovare, negli intervalli situati in carambole in cui l’Autore sferraglia gli antichi strumenti della recitazione e in cui forse prova con compulsiva fermezza ad ascoltarne suoni che probabilmente gli producono ubriacature oniriche,  inducendo anche il lettore, di là delle pagine dei libri che gli presta, a districarsi in una scrittura forgiata per produrre effetti che pervengono da una versificazione che tutto vien producendo in iperboli, che tutto ha già sgretolato in metafore che dispongono all’ascolto di echeggiamenti di ancestrale innocenza, a ciascuno consentendo di filtrare le più svariate forme sperimentali, talvolta estremizzate in figure non più tanto retoriche come gli idiotismi ed i malapropismi. Forme, figure, sperimentalismi che infine non risultano poi tanto distanziati dal senso comune che, giorno dopo giorno, tesse giorni normali, non lasciando ad alcuno di sorprendersi dei continui cambiamenti né di persistenze accolte come familiari scuotimenti che s’avvertono quando due entità straniate da sempre si ritrovano l’una a ridosso dell’altra.

Al caleidoscopio di così svariate supposizioni – alle tante interpretazioni del suo profilo o della sua scrittura –, Vincenti non replica se non confermando con la sua scrittura che nei suoi momenti più creativi egli non figura più tanto poeta ma attore; e invero, quanto più si fa attore tanto più poetici sono i suoni che esprime. A condizione che a declamare quei suoni non ci risulti un Vincenti qualunque – che reciti come un qualunque altro attore che legga la sua scrittura – ma sia piuttosto quel Vincenti che riesce a parlare con Efesto o Poseidon o Eolo perché lui in quel momento si è fatto tal quale a quell’Efesto, a quel Poseidon, a quell’Eolo che, se pure appaiono trascritti nella scrittura, di fatto vivono solo nella voce di un teatro che ci è reso dalla forza evocativa di Vincenti. Come dire che se nelle pagine di un qualunque libro di Vincenti si leggessero delle riscritture in chiave moderna delle Baccanti di Euripide – non ne conseguirebbe in alcun modo una sua specifica poetica. E neanche se vi fossero aggiunti i pilastri della combinazione interculturale – che l’Autore individua nell’intreccio tra letteratura sul tarantismo salentino e dionisismo e priapismo bacchico di epoca classica. Ma se veramente tale risultasse il senso dell’impegno trascrittorio dell’Autore, ne conseguirebbe solo una poetica ridotta in ecolalia minimalistica – mentre è proprio nella più sottile percezione (delle assonanze acustiche come dei risonanti silenzi) di rigorosa pertinenza di ogni singolo lettore che può essere conquistata una tappa che, nel percorso costruttivo, che qui si è provato a delineare, il poeta individua con segni che si ricompongono in una poetica dell’implicazione estetica. Perché sia lo spettatore, insomma, il lettore, a dar senso poetico a quel particolare mosaico arredato, nella bottega di un rigattiere del basso Salento, dalle fatiche di un sicuro artista e attore, cantore e poeta, per esaltarlo a laboratorio dell’orgoglio di una umanità che non si lascia niente alle spalle e che costruisce il futuro con le fatiche quotidiane in cui Vincenti cerca di coinvolgere quanta più gente possibile – a cominciare dai suoi vicini salentini. 

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