di Vito D’Armento
Eccoci davanti ad un nuovo allestimento della bottega di Paolo Vincenti – la cui insegna Al mercato dell’usato non nasconde la particolarità della mercanzia: testi già pubblicati tra il 2010 e il 2015, alcuni parzialmente emendati ed altri riscritti del tutto, aggiungendovi solo qualche inedito risalente agli stessi anni.
La presente nota non è certamente il luogo adatto per praticare una riflessione sulla ri-scrittura che Vincenti è venuto qui svolgendo, anche se dell’occasione sarebbe comunque opportuno approfittare per far emergere qualche suo tratto ancora inesplorato, magari con ulteriore scandaglio del suo profilo di letterato impegnato, anche al fine di connetterne taluni caratteri di fatto coniugati con le strategie scrittorie a cui il poeta fa ricorso e che tuttavia restano quasi del tutto ancora inedite.
A tale scopo può valere un approccio distintivo – per il personaggio, per le sue opere e per la scrittura che dà tono alla sua creatività.
Del personaggio: non se ne sa molto, a dire il vero, salvo del suo civismo apartitico e a un tempo fortemente caratterizzato da passione politica. Un profilo che certo condivide con altre figure salentine – una ragione, questa, che rende necessaria una riflessione su quel general intellect che non risulta organizzato in un circolo culturale che potrebbe fare da laboratorio delle arti praticate nel Salento, considerato che il territorio ha un Conservatorio di Musica e un’Accademia di Belle Arti, oltre che diversi Istituti d’Arte e Licei Artistici distribuiti per tutta la piccola penisola. In altri contesti è accaduto che minuscoli gruppi d’avanguardia hanno dato vita a movimenti culturali di rilevanza nazionale e talvolta anche internazionale scommettendo su intuizioni estetiche fondate su atteggiamenti politici o comunque di critica sociale, come è accaduto, per esempio, col dadaismo o col lettrismo, che hanno poi consentito a discipline accademiche di parcellizzarsi, avviando percorsi di ricerca originali e innovativi come potrebbe essere una settoriale sociologia dell’arte in aree decentrate o periferiche, o una etno-estetica dei rituali e dei patrimoni immateriali, oppure una antropologia delle scritture, o anche una linguistica delle forme vernacolari, e così via. Ebbene, il profilo di Vincenti sembrerebbe orientato – ove gli si attribuiscano le caratteristiche tipiche del poeta sregolato e ad un tempo sensibile ad una estetica che assuma la consapevolezza delle pervasive circostanze sociali e culturali della propria stagione storica – verso una estetica che non annaspi alla ricerca di una corrispondente bellezza che d’amblée esprima una verità di mondo, risultando forse più disposta ad esprimersi in una combinazione costruttivistica che declini “percezioni sensoriali” e “visione” al fine di coesistere in un’idea di mondo che abbia radici nella memoria (quella classica, nel suo specifico caso) e nell’assunzione di un compito istituente che l’artista, almeno quanto chiunque altro, assume gestendoselo quotidianamente e sperimentandone un condivisione con uomini e donne della sua comunità.