Il futuro dalla memoria del Novecento

Forse la nostra memoria è diventata più fragile. Si è sfilacciata. O forse si è fatta distratta, perché siamo attratti, coinvolti, probabilmente anche travolti dalle circostanze del presente. Talvolta si avverte la sensazione che la memoria non serva a niente, né soggettivamente né collettivamente. Non solo. Più o meno consapevolmente abbiamo delegato alla tecnologia la possibilità di ricordare per noi. Basta sfiorare il tasto di un computer e i fatti, le storie, ritornano. Ricordiamo così. Però si potrebbe anche pensare che così non è ricordare. Avere memoria significa poter confidare sulla conoscenza che viene dall’esperienza personale o mediata dalla formazione culturale. Significa essere in grado di ricostruire gli accadimenti attraverso la connessione di elementi, saper riconoscere le analogie e le differenze di quello che accade nel tempo, riscontare le relazioni fra le cause e gli effetti. Forse oggi la nostra memoria non è strutturale. E’ una condizione episodica, occasionale, anche casuale. Ricordiamo per caso. Fino ad un certo punto, invece,  che si potrebbe anche individuare nei primi anni della seconda metà del Novecento, la memoria è stata un progetto che rappresentava la struttura sulla quale si fondava un altro progetto: quello del futuro.  In questo tempo l’idea che abbiamo di futuro ha la stessa esilissima consistenza che ha la memoria. E’ come l’ombra di una figura che galleggia nella lontananza. Indistinta, confusa, vaga. Che non riconosciamo. Che sfugge ai nostri concetti, lasciandoci soltanto la possibilità di una percezione quasi inconsistente. Possiamo soltanto proiettarci fino a domani: non in un tempo più lungo, con una visione più ampia. Non abbiamo la possibilità di pensare un progetto. Ci si dice che si prenderà quello che viene, nel modo in cui viene. Certo, potrebbe anche essere una forma di saggezza, se provenisse da una consapevolezza di come si dipana l’esistenza. Però non è da una consapevolezza che proviene. Attraversiamo un presente che non ha o che ha deboli tensioni di proiezione e di prospettiva. Quasi che ogni promessa di  futuro sia diventata difficilmente credibile e praticabile. Quasi che qualcosa di estremamente complesso e non ancora decifrato costringa a vivere rannicchiati mentre il tempo ci scorre  addosso e intorno, con la sua solita indifferenza, con una più sfrontata prepotenza.  Forse abbiamo più paura e meno aspirazioni. Stiamo sempre più idolatrando il caso. L’orizzonte delle attese si è abbassato fino ad arrivare ai nostri piedi, e si è fatto opaco. In alcuni casi si è sfrangiato e in altri  lacerato il senso dell’appartenenza ad una dimensione collettiva che in qualche modo costituiva un riferimento e suscitava una sensazione di protezione. Ci si ritrova a riformulare costantemente  concetti, prassi, tradizioni, a subire crisi e traumi senza precedenti.

Sono passati vent’anni dall’inizio di questo secolo nuovo, di questo nuovo millennio. Per alcuni aspetti abbiamo definitivamente chiuso il conto con il Novecento. Per altri aspetti, invece, il conto resta ancora aperto e forse resterà aperto per sempre o comunque per molto tempo ancora. Perché a quel secolo forse troppo lungo, forse troppo breve, dobbiamo molto di quello che abbiamo e di quello che siamo. O forse dobbiamo tutto. Alla sua scienza, alla sua letteratura, al progresso, allo sviluppo, al benessere che ha creato, dobbiamo molto e forse tutto. E’ per questo che dobbiamo avere memoria. Perché dalla coscienza delle virtù che ha avuto si possano sviluppare altre virtù; perché con la coscienza degli errori commessi si possa fare in modo di non commetterli più.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 7 febbraio 2021]

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