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Il tempo secondo Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche I, Il linguaggio, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1967 (II ristampa della I edizione del 1961), p. 38: “Nulla sembra essere più sicuro del fatto che tutto ciò che è dato in maniera veramente immediata alla coscienza si riferisce ad un singolo istante, a un determinato “ora”, ed è in esso racchiuso. Il passato nella coscienza “non” c’è “più”, il futuro “non” c’è “ancora”: entrambi quindi sembrano non appartenere affatto alla sua concreta realtà, alla sua peculiare attualità, ma risolversi in semplici astrazioni ideali. E tuttavia è vero, per converso, che il contenuto, che noi indichiamo come “ora”, non è altro che il limite eternamente fluente che separa il passato dal futuro. Questo limite non può in alcun modo essere posto indipendentemente da ciò che da esso è delimitato: esso esiste solo nell’atto della stessa separazione, non come qualche cosa che possa essere pensato prima da questo atto e avulso da esso. Il singolo istante temporale, in quanto lo si voglia determinare come temporale, non può concepirsi come rigida esistenza sostanziale, ma solo come l’oscillante trapasso dal passato al futuro, dal non più al non ancora. Se l’”ora” viene inteso diversamente, se viene inteso in senso assoluto, esso in realtà non costituisce più l’elemento del tempo, ma la sua negazione. Il movimento temporale appare allora fermato in esso e perciò distrutto.”
Che “il singolo istante temporale” non possa “concepirsi come rigida esistenza sostanziale” è forse la miglior prova che il tempo non esiste se non come mera credenza – esistenza accidentale – dell’uomo moderno, che ha tentato un’impresa straordinaria, ovvero di misurare ciò che eternamente – senza misura – fluisce. Ci è riuscito, solo perché noi umani siamo tutti d’accordo nel credere, ciecamente credere, in questa misurazione. Ma basta che si consideri ciò di cui è fatto il tempo, un susseguirsi di istanti – “dal non più al non ancora” – privi di “esistenza sostanziale”, ed ecco che la credenza si rivela per quello che è: un mero calcolo di qualcosa che non esiste, il susseguirsi infinito di passaggi dal “non più al non ancora”, l’”ora”.
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Popolo briccone. Leggo in Giacomo Casanova, Storia della mia vita, XV, cit., p. 410, questo giudizio sulla Francia prima e dopo la rivoluzione: “Oh!, mia cara Francia, dove tutto in quel tempo andava bene nonostante i rescritti regi, le corvées e la miseria dei contadini, l’arbitrio del re e dei ministri, che cosa sei diventata oggi? Tuo sovrano è il popolo: il più brutale, il più pazzo, il più indomabile, il più briccone, il più incostante e il più ignorante di tutti i popoli. Ma tutto tornerà al suo posto prima che finisca di scrivere queste memorie. Nel frattempo, Dio voglia tenermi lontano da questo paese colpito dal suo anatema.”
Un Casanova nostalgico dell’ancien régime, sebbene cosciente dei suoi grandi limiti; un Casanova critico della rivoluzione francese e dei suoi eccessi. Si tenga conto che egli scrive queste parole presumibilmente intorno al 1797 (vedi nota 5 di p. 1019).
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Esistono libri e nonlibri, come esistono, Augé docet, luoghi e nonluoghi. L’affinità non è solo formale, ma anche sostanziale. Difatti un nonlibro è asettico, impersonale, inospitale, proprio come un nonluogo. Un libro vero, invece, ha una tempra solida, un tono riconoscibile, e soprattutto ci richiama per essere letto e riletto: è, cioè, ospitale. Quale meraviglia se nell’età dei nonluoghi imperversano i nonlibri?
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Come si recensisce uno scrittore dozzinale. Giacomo Leopardi, Zibaldone, a cura di Rolando Damiani, Mondadori, Milano 1997, p. 14 (pagina 9), depreca certe esagerazioni dei francesi: “Troverai spessissimo che parlando di qualche scrittore dozzinale ti diranno per esempio: egli ha tutta la tenerezza di Racine e tutto lo spirito di Voltaire, egli è sublime come Corneille e semplice come la Fontaine, egli stringe come Bourdalone, commuove come Massillon, trasporta come Bossuet: e ti meraviglierai come uno scrittore in cui si trovano unite le qualità principali di più altri (secondo loro) grandi, che ne hanno ciascheduno, una sola, non sia più grande di questi, né celebre presso tutta la nazione, e forse tu ne legga il nome per la prima volta.”
Quanto scrive Leopardi mi è capitato spesso di pensare, leggendo non poche recensioni elogiative di numerosi scrittori, nelle quali i recensori non parlano mai dell’opera se non per paragonarla a quella dei grandi. Il che fa parte del malcostume delle nostre lettere.
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Il Grande Rumore. Scrive Saul Bellow, Troppe cose a cui pensare. Saggi 1951-2000, Ed. SUR, Roma 2017, pp. 32-33: “Se dovessi nominare una forza che oggi, in America, osteggia la disciplina simbolica della poesia (…) citerei il Grande Rumore E’ il rumore, il vero nemico. E non mi riferisco solamente al rumore della tecnologia, del denaro e della pubblicità, al rumore dei media e della maleducazione diffusa, ma alla terribile eccitazione e distrazione generata dalla crisi della modernità. (…) Ma la vera grande minaccia è il rumore della vita. A crearlo contribuisce tutta una serie di fattori, reali o meno: ideologie, giustificazioni razionali, errori, illusioni, pseudo-situazioni che sembrano autentiche, pseudo interrogativi che vanno presi comunque in considerazione, opinioni, analisi ospitate sugli organi di stampa o alla radio, conoscenze settoriali, informazioni riservate, faziosità diffuse, retorica ufficiale, notizie d’ogni sorta. Per farla breve, le mille voci della sfera pubblica, il frastuono della politica, la turbolenza e l’agitazione che hanno invaso le nostre vite nel 1914 e che hanno ormai raggiunto un volume intollerabile.”
Bisogna mettere i tappi nelle orecchie per non essere disturbati dal Grande Rumore, ovvero bisogna avere una condotta di vita piuttosto rigorosa. Faccio degli esempi: mai vedere più di mezzo telegiornale al giorno; scorrere il giornale solo quando non si ha nulla di meglio da fare; evitare presentazioni di libri, incontri con l’autore, conferenze varie sulle magnifiche sorti del Mondo; frequentare i social quel tanto che basta a non farsi accalappiare nella chiacchiera in Rete.
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Pensiero sul processo di civilizzazione: dal cannibalismo originario e dall’homo homini lupus siamo arrivati alla civiltà e questo è un gran bene perché i rapporti tra le persone sono oggi disciplinati dalle leggi, consuetudini, convenzioni sociali, ecc; mentre nella selva vichiana probabilmente ci si scannava senza pietà. Ma a guardar bene, stando alle notizie che giungono per es. dalla Turchia (la questione curda), dalla Siria, dall’Ucraina e dalla Libia, anche oggi ci si continua a scannare, anche se con mezzi molto più sofisticati…; e così anche nei rapporti interpersonali l’aggressività non è affatto cessata, ma solo coperta da un manto di ipocrisia, falsità, buone maniere, ecc. E’ tutto qui il nostro incivilimento.
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Il genio secondo Harold Bloom, Il genio, Editore Mondolibri, Milano 2003, pp. 27-28: “Ci sono due significati latini del termine “genio” che hanno una sfumatura piuttosto diversa. Il primo è “generare, far nascere”, cioè essere un pater familias, mentre l’altro è “spirito di una persona o di un luogo, cioè essere un genio buono o cattivo e quindi qualcuno che, nel bene o nel male, influenza molto qualcun altro. Questo secondo significato è sempre stato più importante del primo: il nostro genio dunque è la nostra inclinazione o il nostro dono di natura, la nostra innata forza intellettuale o immaginativa e non il nostro potere di generare questa forza negli altri.”
Questo dice il critico americano. Ma non è forse vero che l’unico in grado di “generare questa forza negli altri” è colui che, avendo seguito fino in fondo la propria inclinazione, il proprio genio, di necessità, “nel bene o nel male”, influenza necessariamente e, direi, naturalmente, gli altri? Magari non subito, ma col tempo questa influenza non mancherà di far sentire i suoi effetti.
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Vita e morte in Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1993, p. 104: “La vita è la confrontazione esplicita dell’essere con il non essere, dal momento che nel suo stato di bisogno costitutivo, dato dalla necessità del ricambio organico, al quale può restare preclusa la realizzazione, la vita esperisce la possibilità del non-essere quale sua antitesi costantemente presente, ossia come implicita minaccia. La modalità del suo essere è la conservazione tramite azione. Il sì di ogni aspirazione è qui radicalizzato per mezzo del no attivo al non-essere. Mediante la negazione del non-essere l’essere diventa l’istanza positiva, cioè la scelta permanente di se stesso. La vita in quanto tale, nel pericolo del non-essere che è immanente alla sua essenza, è l’espressione di quella scelta. Quindi, in modo soltanto apparentemente paradossale, è la morte, ossia il poter morire, in quanto possibilità data in ogni momento – e la cui dilazione si verifica anch’essa ogni momento nell’atto dell’autoconservazione -, ciò che pone il suggello all’autoaffermazione dell’essere: per suo tramite quest’ultima passa attraverso i singoli sforzi di esseri individuali.”
Qui si vede bene il valore della morte, la sua importanza ai fini dell’espandersi della vita. La morte come stimolo positivo della vita: se essa non ci fosse, non fosse una reale possibilità, la vita non avrebbe senso, il senso che le deriva solo ed unicamente dall’atto dell’autoconservazione dell’uomo (il che si significa dalla sua autodifesa contro la morte).