Torquato Tasso. O belle a gli occhi miei tende latine!

Il lettore sente che questi versi si pongono, per lingua e immagini, tra un notturno virgiliano come fonte lontana (Eneide, II, 255: “tacitae per amica silentia lunae”) e un notturno leopardiano come esito, in sintonia oltretutto con la sofferenza amorosa messa in scena: Dolce e chiara è la notte e senza vento. Accolgono, cioè, e annunciano uno sguardo, rivolto alla notte, che anima il paesaggio di presenze. La notte per il poeta è il teatro di un domandare che ha se stesso come interlocutore. Qui è il Tasso delle Rime che entra dolcemente, ma con decisione, nel tessuto del poema eroico, e lo fa con un personaggio come Erminia che contraddice, anzi rovescia, il combattimento, opponendo alle armi la dolcezza di un intrattenimento assiduo con l’immagine dell’altro che è diventata sovrana. La lingua rivela i particolari di un notturno limpido, quieto, lontanissimo dal fragore delle armi: lo “stellato velo” che si dispiega “chiaro”, privo di nubi, nomina una presenza stellare discreta; e quel velo può essere la Via Lattea ma anche il pallore che la luna appena sorta diffonde “velando” il pulsare splendente delle stelle. In questo cielo chiaro la presenza lunare porta una luce nuova, che insieme richiama la perla e il gelo. I versi, in una forte concentrazione di figure, definiscono una notte nella quale gli effetti sono affidati al chiaroscuro e al gioco dei contrasti: velo e chiaro, luminoso e gelo. È la sapienza compositiva di Tasso che porta Petrarca su una nuova soglia dalla quale l’umbratile, il confine, il velato appaiono come figuranti per un racconto della condizione interiore.

Ma torniamo a Erminia, che osserva le “belle” tende latine: “– O belle a gli occhi miei tende latine!”. Il verso è un’anastrofe, ha cioè una direzione verso cui la voce è rivolta, ed è mosso dal movimento dell’inversione, o iperbato, che dà rilievo all’oggetto osservato: le tende latine. Al verso la donna consegna integro il desiderio di incontrare colui che era entrato potentemente nei suoi pensieri. Un momento che Erminia aveva sognato sin da quando, dopo il duello cui aveva assistito, dovendo applicare le sue arti curative ad Argante, ha invece continuato a vagheggiare un’altra cura, un’altra prossimità, di corpi, di sguardi, di protezione, quella col nemico ferito Tancredi. Il piano che ha perseguito fin qui è nato da questa sfida: la “pietà” deve poter congiungersi con l’amore, la cura fisica con l’abbraccio. Ma è la notte lunare stessa, che fin qui ha protetto l’incursione, a rivelare lo scintillio delle armi della donna e il biancore della sopravveste sottratta a Clorinda: subito accorrono cavalieri saracini, guidati da Alcandro e dal giovane Poliferno, il cui padre fu ucciso appunto da Clorinda.

Nel trambusto Erminia sprona il suo destriero in una fuga precipitosa (“Fugge Erminia infelice, e ‘l suo destriero /con prontissimo piede il suol calpesta”). Intanto Tancredi, avvertito dell’incursione imminente di una guerriera saracena, pensa si tratti di Clorinda che ora, inseguita, si trova nel pericolo, così si leva dal suo giaciglio di ferito e indossata una leggera armatura parte verso un inseguimento protettivo. Tra avventurosi smarrimenti e perigliosi incontri Tancredi giungerà nel “paese fatal d’Armida”. Mentre la fuga dell’afflitta Erminia, che lamenta tra rupi e boschi, sulle ali del suo cavallo, l’amore negato, finisce con il risveglio, dopo un sonno benefico, in un mondo rurale, opposto a quello della guerra: Erminia tra i pastori apre un altro canto, il VII della Liberata, con la dolcezza del locus amoenus, il sorriso della natura, la saggezza del vecchio pastore che rinunciando alla corte ha ritrovato nella frugalità una grande quiete. 

Con il mancato incontro tra Erminia e Tancredi Tasso descrive un aspetto dell’amore: la potenza del desiderio, che travolge ogni steccato e divisione di campi e ruoli e lingue, e allo stesso tempo il vuoto che sin da subito abita quel desiderio, un vuoto che accoglie, nell’attesa e nell’illusione, fantasmi e sogni, in uno spossessamento di sé e in un’invasione dell’altro, della sua immagine che sta, come dirà il tassesco Leopardi, “come torre in solitario campo” (Il pensiero dominante). Prima di Tasso e intorno al Tasso ci sono i tanti trattati d’amore del Cinquecento e ci sono i tanti versi d’amore di petrarchiste e petrarchisti che hanno modulato in mille variazioni l’avventura del desiderio e il suo scacco. Il discorso amoroso del Tasso è anche affidato, oltre che alle sue molte rime d’amore, alle riflessioni consegnate al dialogo La Molza, overo dell’amore e alle Conclusioni amorose lette nell’Accademia ferrarese. Allo sguardo sul turbamento, o scuotimento corporeo – l’epipléttein di cui dice l’autore del Sublime e che da Saffo a Petrarca definisce lo stato amoroso – si è aggiunta un’attenzione minuziosa all’onda di un sentire che accogliendo e radicando in sé l’immagine dell’altro avverte allo stesso tempo l’inanità e il vuoto di quella stessa immagine. Annuncio di un’ininterrotta meditazione sull’amore che dal Werther di Goethe alla Tatiana di Puškin tesserà una drammaturgia del sentire “romantico” messa in moto da una presenza. Una presenza forte nella sua assenza, dolcissima e impetuosa nella sua privazione.

[“Doppiozero” del 7 ottobre 2018]

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