di Antonio Errico
Un mastodonte di parole. Un turbinare di linguaggio. Un viaggio appassionato, assoluto, visionario nell’oceano dei significati. Le tempeste e le bonacce dell’anima, le materialità e le immaginazioni, i sogni, gli incantesimi , gli stupori, i sentimenti che fanno trasalire, le ragioni che placano i furori, gli sbalordimenti, le paure, le avventure con le quali un uomo si deve confrontare, le presunzioni, i peccati, i perdoni, si ritrovano tutti nell’opera terribile e meravigliosa, nell’uragano spaventoso e nella bellezza ribollente, nella creatura proteiforme che è l’ “Odissea” di Nikos Kazantzakis tradotta e pubblicata due mesi da Nicola Crocetti. Una traduzione che è un’opera a sua volta. Un’opera sull’opera, nell’opera.
Uno pensa di potersi addentrare il quel labirinto oscuro e sontuoso, di poter fissare la luce di quella sfavillante luminaria, di poter affrontare con gli occhi e con la mente quei trentatremilatrecentotrentatrè versi, quelle settecentonovantacinque pagine, come se avesse trent’anni.
Allora uno si fa un programma, dalle undici di sera fino all’una, alle due, fino all’alba, come se avesse trent’anni, il tempo, l’energia, l’entusiasmo, la curiosità, la passione dei trent’anni. Allora comincia l’attraversamento di quella foresta di metafore, lo sprofondamento nel gorgo delle immagini, dei simboli, delle figure, il corpo a corpo con quel poema gigantesco. A un certo punto si accorge che non ce la fa, non ce la può fare. Non a leggere ma a sopportare il peso che ha ognuno di quei versi. Così si ferma poco prima della fine del canto XVI, al punto in cui dice: “ Danzando Ulisse tiene l’anima effimera dell’uomo/ stretta tra i denti, perché non la porti via il vento”.