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Urbino, i tuoi mattini
finché vivrò li vedrò
in una musica d’archi
all’ombra del Palazzo.
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I tuoi mattini, nel silenzio,
e i respiri di mille destini incrociati
in quelle vecchie case,
quando ancora tutto doveva avvenire
e già tutto svaniva
nel volo d’un colombo.
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Ercole, le mie insanie, insano,
mi perdonavi a sera,
e di giorno mi davi i tuoi libri.
Così m’eri caro padre,
così t’ero degno figlio.
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Piazzetta delle erbe, a sera:
vorrei che il tuo ricordo rimanesse
oltre i miei anni:
i tigli e il bianco vino dei colli,
e le studentesse ilari
che si schermivano ridendo;
e la notte, poi, di giugno,
lunga come in un sogno.
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L’ho visto io, Baldelli,
come San Francesco,
poggiato al tronco d’ un tiglio,
aprire le braccia,
e i colombi beccarlo nel viso.
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Volponi è a passeggio
con qualche servitore,
Bo s’accompagna al bastone
con un’ispanista del cuore
– si mormora -. Così a Urbino
passano i numi tutelari
senza incontrarsi – sembra –
in Piazza della Repubblica.
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Il tuo profilo incantevole
che io amavo tanto;
mai più ci rivedremo;
e tu incosciente dicevi
che io non ero serio!
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E le lucciole, dimentico forse
le lucciole? Mio Dio,
quante ve n’erano
(sparse come anime in pena)
nelle campagne d’ Urbino.
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Noi eravamo le lucciole,
sparse come anime in pena
per la campagna d’Urbino.
Non erano scomparse
le lucciole! Oh, le avessi viste,
tra le ginestre fiorite,
stordite, volare verso i fienili,
e scintille levarsi fino al cielo
come pagliuzze incendiate.
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Amò come mercante
l’amante che non scagliò
sassi contro la tua finestra;
poeta puoi dire
chi ti aspettò sull’uscio,
chi ti pregò tra le ginocchia,
in pianto,
chi se ne andò giurando
che mai nessuno t’avrebbe amato tanto!
(1995)