Il romanzo di Tanpınar fu terminato nel 1962, e meritoriamente pubblicato nel 2014, nella traduzione in italiano, dall’editore Einaudi, grazie anche al suggerimento del Premio Nobel Orhan Pamuk, che considera questo scrittore come il più importante della letteratura turca moderna. E infatti innumerevoli fili legano i due autori, in particolare nell’amore per la loro città, Istanbul, la grande metropoli sul Bosforo, alla quale essi hanno dedicato tante pagine, ispirate dagli edifici, dagli ambienti dei vari quartieri, dagli abitanti e dalle cose. Le opere dei due scrittori, come in un gioco di specchi, offrono al lettore la sensazione reale di attraversare le sue vie e di conoscerne la gente, un’emozione ancora più intensa per quanti quella città l’hanno visitata e vissuta. E il labirinto di voci, profumi, oggetti, si snoda nell’altro romanzo di Tanpınar, “Serenità” (Huzur), quando egli si ferma nei negozi polverosi del Gran Bazar che espongono ”un riassunto piccolo e misero dell’antico e ricco Oriente” o nelle librerie dove sono accumulati libri “con la copertina di pelle di pecora impilati uno sull’altro e legati con una corda di canapa sul piano di una panca”, che egli stesso deve aver toccato, negli anni cinquanta, uscendo dalla sua Università, dominata dalla torre di Beyazit. Un inventario di oggetti che racchiudono il senso di mille esistenze e che ritroviamo, senza soluzione di continuità, nel romanzo di Orhan Pamuk,”Il Museo dell’Innocenza” (Masumiyet Müzesi) il quale, non a caso, cita, in apertura, proprio un passo tratto dai taccuini di Tanpınar: “Prima osservai i ninnoli sulla toletta, i barattoli e i flaconi. Li presi e li studiai a uno a uno. Mi rigirai in mano il suo piccolo orologio…”. Con l’acribia di un archeologo, i due autori scavano all’interno delle cose, anche le più umili e apparentemente senza valore, che ora troviamo raccolte in un incredibile Museo, inventato da Pamuk. Qui la storia dei due amanti Kemal e Füsun, si dispiega attraverso la collezione degli oggetti appartenenti all’amata, che egli aveva perduto, a causa delle tradizioni di una Istanbul che, negli anni cinquanta, appare divisa tra il desiderio di aprirsi alle abitudini dell’Occidente e la chiusura degli ambienti più conservatori della società turca. Il “Museo dell’Innocenza” è oggi un luogo letterario, assolutamente da visitare nel quartiere di Beyoğlu, a Çukurcuma (Il fosso del Venerdì).

Ma il romanzo di Tanpinar, sugli orologi ed il Tempo, è anche un affresco della città nel periodo tra la fine dell’Impero Ottomano e la modernizzazione del Paese, avviata dalla rivoluzione di Atatürk e culminata negli anni Quaranta e Cinquanta: “…all’epoca del regno del sultano Abdul Hamid II, la nostra società era spenta e depressa. L’insoddisfazione che si coglieva sul volto annoiato del sultano si diffondeva in cerchi concentrici e aveva contaminato tutti gli oggetti.”. Della vitalità fittizia della nuova era è invece metafora la creazione dell’Istituto per la regolazione degli orologi, un “ente inutile”, finanziato dai politici locali: il fluire del racconto raggiunge livelli di surreale comicità nella descrizione delle funzioni lavorative attribuite ad un numero crescente di addetti, una metà reclutata attraverso la raccomandazione di una persona importante, l’altra metà tra i famigliari dei fondatori. Il burocratico carrozzone aveva il compito di erogare multe “per ogni orologio non regolato con uno degli orologi di riferimento, in primo luogo quelli pubblici.”. Halit il Regolatore (Halit Ayarcı) era il geniale fondatore di questa macchina infernale, che, a supporto della sua istituzione, aveva inventato anche un inesistente personaggio storico, Ahmet il Tempistico, Ahmet Zaman Efendi (Zaman è la parola che in turco indica il Tempo), che sarebbe vissuto al tempo del sultano Maometto IV, quello del fallito assedio di Vienna nel 1683: l’orologiaio inesistente avrebbe addirittura scoperto i calcoli delle frazioni di secondo, prima dell’inglese George Graham, effettivamente esistito. Halit non si curava delle critiche di quelli che “Non finivano di rimproverarci sempre le stesse cose, senza nemmeno accennare alla nostra capacità di creare lavoro in un Paese nel quale la disoccupazione aveva raggiunto un livello così alto, criticavano il fatto che da noi ci fossero tre direzioni generali, undici dipartimenti, quarantasette stenografi e duecentosettanta controllori. In più si facevano beffe dei nomi dei dipartimenti…”.
Una storia che consiglio di leggere anche perchè offre riferimenti interessanti alla situazione attuale dell’Italia, funestata da un crescente intervento statale, che già si annunciava prima dello scatenarsi del virus cinese, con il reddito di cittadinanza e con l’inedita figura dei navigator, ad intasare uffici pubblici, senza poter svolgere alcun lavoro realmente utile alla comunità. In più con la beffa, nell’anno in cui ci accingiamo a celebrare i settecento anni dalla morte di Dante, di dover pronunciare all’inglese, o meglio con l’accento barese di Lino Banfi, una parola, navigator (marinaio), che gli inglesi hanno preso dal latino. E l’esempio ci viene dal nostro Ministro degli Esteri Luigi di Maio che, con accento oxoniense, pronuncia vairus anche un’altra latinissima parola, virus, che significa, semplicemente, veleno.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 21 gennaio 2021]