di Antonio Errico
C’è una poesia di Emily Dickinson che nella traduzione di Margherita Guidacci dice così: “Da un’asse all’altra avanzavo/così lenta, prudente./Sentivo le stelle sul capo,/e sotto i piedi il mare./Questo solo sapevo: un altro passo/poteva essere l’ultimo./Ed avevo quell’andatura incerta/che chiamiamo esperienza”.
La certezza che si acquisisce di qualcosa deriva da un senso di vuoto, da un incertezza del passo, da una paura che l’asse del ponte che si sta attraversando possa non tenere consegnandoci all’abisso di un’esperienza non maturata, di una mancata conoscenza.
Ma non sempre e non necessariamente si giunge alla conoscenza con l’esperienza diretta dell’attraversamento del ponte. Anzi, molto spesso e per molte questioni, la conoscenza è l’esito di un’ esperienza indiretta, mediata, ricevuta in consegna dalla cultura alla quale si appartiene. Perché non si può fare esperienza di tutto. Sarebbe come inventare continuamente la ruota e scoprire continuamente il fuoco. Invece si intraprende un cammino affidandosi ad una conoscenza della strada che altri hanno fatto, per continuare quella stessa o per fare esperienza di altre strade nuove. Succede così, pressappoco, per tutte le cose.
Eppure, guardandosi intorno, alle volte si ha l’impressione che dell’esperienza non si tenga alcun conto. Nemmeno quando può assumere un significato essenziale per il dipanarsi dei destini di tutti e di ciascuno. Così ogni volta si inventa la ruota e si scopre il fuoco ogni volta. Così ogni volta si attraversa lo stesso ponte con l’andatura incerta e la paura che un’asse non tenga.