Nel romanzo “Il vento nella piana” di Daniele Capone la difficile e sofferta ricerca di un’identità perduta

di Gigi Montonato

Io non credo che uno scrittore metta in esergo alla propria opera citazioni come spille di abbellimento o così, tanto per. Sono invece segnali, se non proprio chiavi di lettura. Così a me è parso abbia fatto Daniele Capone, che, nel suo romanzo Il vento nella piana (Castiglione, Giorgiani, 2020, pp. 208), ha preso dallo scrittore russo Turgenev domanda e risposta: “… Ivànovic, la vostra patria voi l’amate?” – “Io l’amo e appassionatamente l’odio”. Proprio così. Dunque Capone ama e odia la sua “patria” come Catullo in tormento d’amore amava e odiava la sua Lesbia. Il vento è il progresso, la piana è Solara, nome di fantasia per indicare un paese, ma più in generale il Salento, il Mezzogiorno.

Questo nuovo e insieme “vecchio” romanzo di Capone – dirò poi perché nuovo e vecchio – è la ricerca della propria identità attraverso la scrittura, ma anche di quella del suo paese, se mai fosse possibile in una visione olistica distinguere l’una dall’altra. E’ in buona sostanza il romanzo di un romanzo, ma anche la ragione di una esistenza. L’autore è il protagonista, la narrazione è in terza. “L’idea di scrivere un romanzo al solo scopo di compiere un atto che gli servisse a recuperare una dimensione, un’identità, una gente” può essere una missione di per sé salvifica. Identità propria suggerita dall’esterno, confrontando una realtà, quella settentrionale, a quella meridionale, amata e disprezzata a un tempo. Ma anche all’interno, e qui il discorso si allarga al paese, alla sub-regione, come la chiamava Ennio Bonea, dove i suoi concittadini erano così volatili da apparire uomini che non fanno ombra: “Non erano più poveri e non erano ancora ricchi. Non avevano più la loro dileggiata cultura contadina e non avevano ancora cultura, non avevano più la loro coscienza tribale e non avevano ancora una complessa coscienza civile. Non erano più servi e non erano ancora liberi. Non erano più solo terroni e non erano ancora Italiani”. In Capone è ricorrente la distinzione fra meridionali e settentrionali, gli unici, questi, a potersi dire “Italiani”: “l’uomo di Solara, ma si potrebbe dire della Piana o di tutte quelle zone del Sud toccate dal benessere è ancora diverso dall’uomo di altri luoghi. Anche se egli si ritiene uguale ai Bolognesi, ai Genovesi, ai Bergamaschi  […] l’uomo-massa di Solara conserva tratti specifici”.

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