Molti lamentano che il linguaggio dei politici odierni appare sciatto, privo di eleganza e, in alcuni casi, addirittura inosservante delle regole morfosintattiche. Anche il vocabolario è ristretto e ripetitivo, farcito di frasi fatte, motti alla moda, formule ritrite, a volte parolacce e veri e propri strafalcioni. L’inadeguatezza del lessico politico è evidente: per accorgersene basta consultare un giornale, un profilo facebook o un account su twitter di qualche leader o parlamentare. Il problema non è costituito solo dalla labilità delle strutture grammaticali l’insufficienza della lingua è sintomo dell’impoverimento dell’offerta politica. Qualcuno formula altre ipotesi. La politica, alla ricerca di consenso, tenderebbe ad assumere tratti e comportamenti diffusi, per quanto deteriori; i politici tenderebbero a far proprio il linguaggio della gente comune, per carpirne l’attenzione e il consenso. Ma si tratta di ipotesi forse troppo sottili, a parer mio. In maggioranza, i politici parlano come parlano perché a loro sta bene così.
La rubrica «Il Tema del mese» della pagina web dell’Accademia della Crusca (www.accademiadellacrusca.it) rappresenta una sorta di voce ufficiale dell’Accademia su problemi di particolare interesse per l’opinione pubblica. Funziona così. Un Accademico propone alla attenzione collettiva un argomento di natura linguistica legato all’attualità, presentato in modo da affrontare anche questioni di interesse generale, in grado di suscitare osservazioni da parte dei lettori. Il pubblico può intervenire e dire la sua, commentando liberamente il contenuto del testo. Alla fine, trascorso un mese (più o meno), l’Accademico proponente tira le fila del dibattito. Nella conclusione risponde a coloro che sono intervenuti, condividendo o dissentendo rispetto alle diverse opinioni a confronto, a volte offrendo ulteriori spunti di riflessione.
Si intitola «L’italiano della politica» un Tema del mese proposto da Vittorio Coletti, che ha insegnato Storia della lingua italiana all’università di Genova. Eccone alcuni passaggi «Se in passato la lingua della politica suonava astrusa o troppo compassata o così settoriale da permettersi di infrangere le regole della geometria con le celebri “convergenze parallele”, oggi rumoreggia volgare e schietta, diretta e approssimativa. Prima si cercava di parlare in pubblico meglio di come si mangiava, oggi ci si vanta di parlare come si mangia (col sottinteso che si mangia male). Si è passati da una lingua colta, forte ed esclusiva, a una lingua popolaresca, debole ed inclusiva. […] Questo cambiamento è andato in parallelo con l’affermazione di una comunicazione politica più orale che scritta. In precedenza, era “scritto” anche il discorso in pubblico (spesso letto); oggi è “parlato” anche un testo scritto (e magari letto di nascosto su un “gobbo” invisibile allo spettatore). Del resto, sono cambiati anche i formati comunicativi e dalla lunga orazione solista dei comizi si è passati al concitato diverbio a più voci dei talk show. Il mutamento si osserva sia nel lessico (con ospitalità anche a parole basse, scatologiche, volgari) che nella sintassi (con prevalenza di costrutti semplificati, frasi nucleari, paratassi spinta nei testi più meditati oppure di periodare ipertrofico e inconcluso, disordinato e sempre riformulato in quelli improvvisati)».
Queste parole di un linguista concordano pienamente con quelle, altrettanto puntuali, di un giornalista. Mario Nanni, già capo della redazione politica e capo redattore centrale dell’ANSA, è autore di un bel libro intitolato «Parlamento sotterraneo», pubblicato da Rubbettino (recensito su Nuovo Quotidiano il 21 dicembre dell’anno appena finito). Nel libro Nanni, molto attento ai fatti di lingua, dedica capitoli a temi come «Lessico parlamentare. Lessico politico e visione del potere», «I parlamentari e il latino, un rapporto … scivoloso», «Le altre lingue dei parlamentari: politichese, sinistrese, “pallonese”. I tormentoni». L’analisi della lingua usata dai parlamentari è costellata di citazioni, legate a volte a personaggi poco noti, più spesso a protagonisti di primo piano, le cui frasi si travasano dalle cerchie ristrette della politica ai vasti circuiti della lingua comune, assumendo in alcuni casi il valore di veri e propri motti. Craxi: «quello mente per la gola» (‘mente sfrontatamente’, riutilizzando un modello letterario che risale addirittura a Pietro Aretino, primi decenni del Cinquecento); Andreotti: «il potere logora … chi non ce l’ha» (ribaltando l’auspicio rivolto dai partiti di opposizione alla Democrazia Cristiana al governo: «il potere logora»).
In forma affabile e piacevole, Nanni si sofferma sulla lingua dei politici, riferendo aneddoti, episodi poco noti, diverbi, battute, ironizzando bonariamente sulla loro scarsa dimestichezza con le lingue straniere e con il latino. Ricorda e apprezza la scelta di Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea Costituente, di far operare una revisione linguistica e stilistica del testo della Costituzione, prima di sottoporlo al voto finale. Non a caso Tullio De Mauro, uno dei grandi linguisti del Novecento, indicava nella lingua della Costituzione (precisa, nitida, trasparente) un modello a cui tutti, politici e cittadini comuni, dovremmo guardare con ammirazione. Il libro di Nanni serve moltissimo anche ai linguisti.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 3 gennaio 2021]