di Antonio Errico
Accade a volte che dai poeti vengano espressioni che consentono di comprendere il senso profondo degli eventi, dei tempi che si vivono, perfino degli scenari che si profilano all’orizzonte.
Il loro mestiere consiste nell’ oltrevedere, nel proporre come condizioni di possibilità quelle che gli altri considerano impossibili, come concretezze probabili quelle che gli altri considerano assolute improbabilità.
Loro scaraventano il pensiero al di là delle frontiere stabilite dalla logica, dalla possibilità, dalle convenzioni, dal pensiero consueto, dalle comuni opinioni, e nella loro visionarietà, nella sfrenatezza della loro immaginazione configurano visioni che poi a distanza di tempo, spesso di molto tempo, si ripresentano come forme della realtà.
Corteggiatori delle verità, a volte riescono a sedurle e a farsi rivelare una parola carica del significato di categoria alla quale si dovrà fare riferimento per rappresentare quello che sta accadendo. Una metafora, un’allegoria, diventano strumenti di comprensione anche di quello che non si era previsto, non si era immaginato. Quasi sempre si tratta di espressioni ad alto livello di semplicità, perché la metafora, l’allegoria, sono il tentativo di ricondurre la complessità in una forma semplice e trasferibile in situazioni e contesti diversi da quelli in cui si sono generati.
Così durante l’omelia della vigilia di Natale, Papa Francesco ha citato Emily Dickinson; Ursula Von Der Leyen durante un discorso ha citato “Romeo e Giulietta” di Shakespeare e due versi da “Littte Gidding”, uno degli straordinari “Quattro quartetti” di Eliot: “ Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine/e finire è cominciare” (Cito dalla traduzione di Filippo Donini).