Che dirti, amico mio? Il tanto invocato rinascimento gallipolino, che per certi aspetti sembrava avessimo iniziato proprio noi alla fine degli anni 1970, inizio 1980, quando l’Italia era sotto una cappa di piombo, – con il concorso “l’uomo e il mare” e tutta una serie di iniziative annesse (presentazione libri/mostre d’arti figurative e poi convegni/dibattiti/teatro/ e altre manifestazioni di vario genere che non gravarono mai sul bilancio dei contribuenti e quindi neppure sulle casse, perennemente vuote, del Municipio), – in realtà non è mai avvenuto.
Siamo rimasti agli antichi fasti dei Coppola, dei fratelli Briganti, dei Ravenna, dei Castiglione, di Antonietta De Pace, Patitari ed Emanuele Barba, (cito i primi nomi che mi vengono in mente) a cui possiamo aggiungere i tuoi amati Vernole e Luigi Sansò. Stop.
Che cosa è rimasto del nostro piccolo mondo di falsa “gloria”? Nulla, forse solo un sogno di mezza estate. Del resto, diceva Shakespeare, “noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni”. E tuttavia, di tanto in tanto, affiora in me quella malinconia compatta e opaca, quel velo di particelle minutissime d’umori e sensazioni, un pulviscolo d’atomi – come scrisse Calvino – “che costituisce forse l’ultima sostanza della molteplicità delle cose”.
Ma anch’io sono stato – come autore di cantafavole , storie, storielle e storiacce -, un parto di quella Gallipoli ormai sparita. E questo non potrò mai dimenticarlo, anche se vivessi cent’anni e non rimettessi mai più piede nella “città bella” (e la cosa, purtroppo, è molto probabile) . Ma anche se non dovessi più rivedere quel mare di sale greco, continua fonte di stupori e meraviglie, provo sempre una sorta di commozione cosmica a quel rito celebrativo che è il tramonto gallipolino, a quella sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo di una luna leopardiana, che s’affaccia sul mio balcone del quarto piano di viale Europa. (“Dolce e chiara è la notte e senza vento/e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti/ posa la luna, e di lontan rivela/ serena ogni montagna”).
A Gallipoli – lo so – ci stanno anche le “Macare”, le streghe che volano di notte sui manici di scopa, o sui remi delle barche addormentate nel Canneto, e che fanno un “sabba infernale” ogni volta che qualcuno osi alzare la cresta, ci stanno le ossessioni, gli incatenamenti della storia, le invidie, le gelosie che tutto paralizzano, che interrompono qualsiasi possibilità di crescita e di progresso, che addormentano tutto – anche le coscienze e le cose essenziali – in un lungo sonno di morte. Ma c’è sempre la speranza (la tua e di qualche altro spirito innamorato della favola de “L’Isola della Luce”) che in un batter d’occhio, un pensiero fuggente , un’ala d’angelo, tutto possa modificarsi , e riuscire a inserirsi velocemente nello spazio fra la domanda di un futuro e la risposta da “buco nero”, in uno spiraglio di luce, in un spirar lieve di vento… una brezza silenziosa e leggera.
Roma, 2 gennaio 2021
*Giuseppe Albahari, vecchio storico, scrittore, e cronista della “Gazzetta del Mezzogiorno”