La Biblioteca provinciale (Bildungsreise inatteso)

Il volto muto e diffidente dell’impiegato all’ingresso non contribuì ad alleviare il senso di disagio.  <<Cerchiamo il traduttore del De bello gallico>>, disse uno di noi, non senza vergogna. <<La sala in fondo al corridoio>>, ci rispose, tornando a gettare lo sguardo sul lavoro che aveva continuato a fare meccanicamente. Varcammo un’alta porta che dava su un grande salone. Come quando si entra in Chiesa, gli occhi si portano verso l’alto, forse in cerca della luce, anche entrando in questa sala, tutti insieme volgemmo la testa all’insù. Ma non alla ricerca della luce, bensì per la visione che si offrì ai nostri occhi. Le pareti di quel salone erano coperte fino al soffitto di libri, ordinati in vecchi ed eleganti scaffali, affiancati da corridori a ballatoio da cui partivano scale, sempre più piccole, che consentivano l’accesso ai livelli superiori. Il corridoio indicato dall’impiegato era in realtà uno stretto passaggio ricavato con un lungo separé in legno ad altezza d’uomo che aveva la lodevole intenzione di proteggere il lavoro degli studiosi, ai quali erano riservati i quattro massicci e ampi tavoli collocati al centro del salone.

Entrando, non sfuggì uno strano mobile posto sulla sinistra della porta del salone. Basso e interamente raggiungibile, quel mobile era fatto con piccoli cassetti, o tali ci apparivano, contrassegnati da poche lettere. Guardato nell’insieme, si aveva l’impressione di uno rosario di lettere che scorrevano dalla A alla Z. Avremmo poi imparato trattarsi dello “Schedario” della Biblioteca. E quelli che sembravano cassetti, erano in realtà i raccoglitori delle schede, compilate in un elegantissimo “Corsivo italico” e ognuna dedicata a ciascuno dei volumi che avvolgevano i rari visitatori.

Il disagio iniziale di trovarsi di fronte all’ignoto, cambiò di tono, perché ormai quell’ignoto aveva assunto un corpo, una fisicità, era quasi accessibile: qualcosa di enorme e di affascinante. <<Sàpere aude!>>, disse uno di noi riecheggiando il monito tante volte sentito dall’insegnante di Latino. E con questo monito nelle orecchie, che assomigliava a una minaccia, ci avviammo per il corridoio.

Entrammo in una stanza più piccola, a confronto dell’immensità del salone, ma sicuramente più accogliente. Anche qui un grande e pesante tavolo era a disposizione degli studiosi al centro della sala, alle cui pareti i soliti scaffali salivano fino alla  volta. Ma ora il nostro sguardo fu subito attirato da due busti di marmo bianco posti su tronchi di colonna l’uno di fronte all’altro agli angoli della sala. Si poteva leggere abbastanza facilmente il nome inciso alla base: SCIPIONE AMMIRATO e, dall’altro lato, GIULIO CESARE VANINI.

Forse fu a questo punto che il disagio, latente per tutto quel percorso, si trasformò in una serie di interrogativi: era per dare agli studenti l’opportunità di copiare una traduzione, che era stato costruito quella specie di tempio? Poteva essere sguardo di approvazione, quello dei due convitati di pietra? Era questo dimostrato da noi il coraggio del sapere che richiamava il monito del professore di Latino?

Il pesante silenzio dei nostri pensieri fu squarciato da un urlo che come un fulmine attraversò le sale. << Subito, Direttore>>, rispose una voce, individuata come appartenente all’impiegato dell’ingresso. L’urlo proveniva dalla stanza attigua a quella di consultazione. Noi ne potevamo intravedere solo l’ingresso, sormontato da pesanti drappi di velluto, che mostravano dignitosamente i segni della loro vetustà. Solo per pochi secondi potemmo scorgere la persona del Direttore. Era un signore dalla figura asciutta, longilinea, con una folta capigliatura argentea e con un baffo dalle punte leggermente girate all’insù. Era Teodoro Pellegrino. Il breve colloquio con l’impiegato si svolse nella più totale indifferenza per noi ‘studiosi’ che, comunque, non fummo particolarmente distratti nel furtivo esercizio di scopiazzatura.

Uscimmo che era ormai crepuscolo. Ad accoglierci fuori c’erano un’infinità di rondini che si inseguivano in chiassosi voli pazzeschi e trasmettevano un senso di libertà e di istintiva felicità. L’aria dell’imminente primavera non era ancora calda, ma invitava ad indugiare e a rimandare il rientro a casa. Le risate e gli scherzi adolescenziali mascheravano una segreta contentezza e forse anche una punta di orgoglio. Certamente non per aver copiato la traduzione. Era come se qualcosa ci fosse rimasto addosso. L’odore della Biblioteca, la vista dei libri, i tavoli, i busti di Scipione Ammirato e Giulio Cesare Vanini, lo sguardo dell’impiegato, l’urlo del Direttore si dilatavano e apparivano come le tappe di un’avventura o di un viaggio, che occorreva ripetere. Accade, a volte, che cercando una cosetta da nulla, si trovi inaspettatamente qualcosa di più importante di cui, poi, non si potrà fare a meno.                                                                                                                                                                                                                                                                                              

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1 risposta a La Biblioteca provinciale (Bildungsreise inatteso)

  1. wp_2601243 scrive:

    “È una cosa scritta senza finalità. Se ritieni, pubblicala. Ma possono esserci ricordi imprecisi. P. es., i busti nella sala di consultazione potrebbero non essere quelli che ho scritto, ma di Manzoni e di Filippo Briganti. Il dubbio mi è sorto dopo, quando sono andato a visitare la Biblioteca restaurata e ho visto i due busti ancora lì a incutere timore e reverenza ai pochi studiosi.”. E’ quanto mi scrive Franco Martina, regalando al lettore questo suo scritto. Sulla imprecisione circa i busti della sala consultazione della Biblioteca provinciale, vedremo. Un blog come il nostro è aperto alle precisazioni dei lettori, che sono invitati a intervenire con i loro ricordi.

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