Banchi 9. La scuola pubblica è morta! Evviva la scuola pubblica!

È un’astratta divagazione, apparentemente intangibile, che tuttavia investe nel concreto il senso profondo della scuola pubblica. Lo investe nel duplice significato di investire, lo corona o lo distrugge, perché il presupposto fondante della scuola pubblica è altamente politico e sociale: la realizzazione individuale non può prescindere da processi di conoscenza, convivenza e emancipazione collettivi.

Pubblica non significa solamente gratuita ma indica uno spazio dove si incontrano le pluralità eterogenee di un medesimo paese, pluralità intergenerazionali che non si scelgono, un luogo di mediazione del conflitto dove si impara a convivere con l’Altro, dentro e fuori di noi, nella sua peculiarità e complessità.

Pubblica racchiude in sé il principio costituzionale della giustizia sociale, un progetto ambizioso di scuola democratica.

Tuttavia, se è avvenuta tale irrimediabile rimozione antropologica, se questo tipo umano dell’Attuale non avverte più alcuna urgenza ontologica di rappresentarsi in seno a un’alterità storicamente e culturalmente definita, la scuola pubblica ne è investita nel significato distruttivo del termine, crolla l’architettura simbolica che la sosteneva.

Se la dimensione politica e sociale non è più interiorizzata come fondamento della persona umana, per quale motivo dovremmo difendere questa malandata scuola pubblica?

Se ci percepiamo esistenti solo come individui, se riteniamo che la nostra fioritura sia completamente indifferente al terreno socioculturale nel quale siamo seminati, allora è comprensibile e addirittura auspicabile che ogni famiglia scelga la scuola ideale per i propri figli. Pluralismo educativo, lo chiamano. La direzione è questa e – dopo aver rotto il ghiaccio e visto con chiarezza quello che siamo diventati – è pure quella giusta.

[“Zibaldoni e altre meraviglie” del 28 dicembre 2020]

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