di Dario Falconi
Dispotismo dell’Attuale, sospesi nell’attesa di definizione, affanno planetario, quanto dura un’emergenza? Un anno, cinque, venti? Quando potremo finalmente sciogliere il ghiaccio e vedere come siamo diventati?
Intanto questo lungo tempo morto rivela il cadavere d’un occidente in avanzato stato di decomposizione; gli abiti che lo vestivano a festa irrimediabilmente caduti, tutti insieme e contemporaneamente, di fronte ai nostri occhi, eccola qua, nudità raccapricciante.
Tra le molteplici epifanie messe a nudo una mi ha colpito particolarmente: la facilità – attenzione, non la necessità, non l’opportunità – con la quale è stato assecondato il passaggio dalla presenza incarnata alla distanza virtualizzata. In ogni ambito, scuola compresa. Un adeguamento così immediato, diffusamente accolto senza troppe resistenze, da non poter essere sbrigativamente archiviato come mero atto condiviso di civismo responsabile; c’è nel fondo una questione che interroga antropologicamente la coscienza collettiva che siamo.
Un’inquietudine questa che nutro da anni, molto ben alimentata quindi di letture e vissuti: e se fosse avvenuta, qui come altrove, ostinato e perseverante lavorio culturale, la rimozione dello spazio pubblico?
Non mi riferisco tanto a quello esterno, che semmai è un riverbero, ma a quello interno.
Quanto spazio pubblico c’è dentro di noi? Quanta disponibilità ad accogliere l’Altro nella sua peculiarità e complessità?
E poi, che cosa rappresenta questo Altro per noi? Gli riconosciamo un ruolo costitutivo della nostra essenza o è solo un accessorio completamente estraneo al nostro destino? Consideriamo la relazione con l’Altro condizione imprescindibile per lo sviluppo armonico della persona umana o lo percepiamo solo nei termini mercantilistici della convenienza?