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Lettura. Benedetta Craveri intervista Pascal Quignard, Il senso di Quignard per la letteratura, “La Repubblica” del 3 marzo 2009, p. 40: “La lettura è la passione della mia vita. Credo che mi sarei suicidato se fossi vissuto in una società senza scrittura. Senza che mi fosse data questa possibilità di appartarmi. Nella lettura si cessa di essere se stessi, di appartenere alla propria epoca, alla propria patria, di vivere in uno spazio e in un tempo definiti. È un’esperienza molto pericolosa e capisco assai bene che la gente non legga. La perdita d’identità, l’oblio di sé generato dalla lettura ha a che fare tanto con l’estasi quanto con la devastazione. Quando si penetra in un altro pensiero o in un altro mondo si ha paura di uscirne diversi. E a ragione. In effetti ci si espone a delle metamorfosi totali. Delle rivoluzioni, a delle implosioni psicologiche, a della crisi religiose. Ci si trova confrontati all’utopia, alla solitudine, alla rivolta, all’aporia, al segreto, all’estraneità, all’ateismo, al dubbio, alla non società (perché la società non è un valore). E mentre le parlo mi rendo conto che sto facendo la lista dei valori messi al bando dalle maggioranze religiose o politiche.”
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Diseguaglianza. Leggiamo la descrizione della classe sociale degli ultraricchi fornita da Slavos Zizek, Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo, Ponte alle Grazie, Milano 2010: “In un articolo su Newsweek, Emily Flynn Vencat e Ginanne Brownell riferiscono che oggi “il fenomeno del “per soli membri” si sta espandendo fino a diventare un intero modus vivendi, includendo ogni cosa, dalle condizioni bancarie private alle cliniche sanitarie solo su invito (…) coloro che hanno i soldi stanno progressivamente rinchiudendo la loro intera vita dietro portoni sbarrati. Piuttosto che partecipare a grandi eventi mediatici, organizzano concerti privati, sfilate di modo ed esposizioni d’arte a casa propria. Vanno a fare shopping after-hours e la classe e la disponibilità economica dei loro vicini (e potenziali amici) viene rigorosamente controllata”.
Una nuova classe globale sta così emergendo, “con, ad esempio, un passaporto indiano, un castello in Scozia, un pied-à-terre a Manhattan e uhn’isola privata ai Caraibi”. Il paradosso è che i membri di questa classe globale “cenano in privato, fanno shopping in privato, ogni cosa è privata, privata, privata”. Si stanno creando un ambiente vitale per risolvere il proprio angoscioso dilemma ermeneutico; come afferma Todd Mullay: “Le famiglie ricche non possono ‘iniziare a fare inviti alla gente e aspettarsi che questa capisca cosa voglia dire avere 300 milioni di dollari’ “.
Allora quali sono i loro contatti con il mondo esterno? Sono di due tipi: affari e beneficenza (protezione dell’ambiente, lotta contro le malattie, mecenatismo, ecc.). Questi cittadini globali vivono la loro vita per lo più nella natura incontaminata – facendo trekking in Patagonia e nuotando nell’acqua trasparente delle loro isole private, Non si può fare a meno di notare che una delle caratteristiche di fondo dell’atteggiamento di questi ultraricchi che vivono nelle loro torri d’avorio è la paura: paura della vita sociale esterna in sé (…). Questi ‘cittadini globali’ che vivono in aree isolate, non rappresentano forse il vero opposto di coloro che vivono negli slum…? (…) La città che incarna meglio questa divisione è San Paolo, nel Brasile di Lula, che ospita 250 eliporti nell’area del suo centro città. Per isolarsi dal pericolo di mescolarsi alla gente ordinaria, il ricco di San Paolo preferisce usare gli elicotteri…”.
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Neo-liberismo. Nell’intervista rilasciata da Michel Féher a Anna Maria Merlo, La sinistra? Deve entrare in Borsa, “Il Manifesto” del 28 luglio 2010, p. 9, leggo una precisa descrizione del neoliberismo: “Il grande successo del neo-liberismo, la sua forza, non è stata solo di proteggere gli interessi dei proprietari ma di far sì che la maggioranza si identificasse con i proprietari, anche se non lo era. I piccoli risparmiatori hanno avuto accesso al mercato finanziario con i fondi pensione, i fondi di investimento, le stock optional eccetera. Si è arrivati al paradosso di chi dice: accetto la moderazione salariale perché questo farà salire il valore delle azioni. Anche i più poveri sono entrati in questo meccanismo, attraverso l’accesso facile al credito, si identificano con i proprietari che non sono ancora ma che vorrebbero diventare. Hanno ipoteche sulla casa da rimborsare e difendono la diminuzione delle tasse che permette loro di rimborsare il credito”.
Come dire che in epoca neo-liberista non è possibile non essere neo-liberisti.
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Chi è un intellettuale. Lo spiega bene Luce Irigaray, Il lavoro del pensiero, “Alfabeta2”, ottobre 2010, p. 11: “Un intellettuale non può limitarsi a conoscere il passato, a ripetere cose già scoperte e dette (…). Ma studiare deve innanzitutto servire per imparare a pensare da se stessi: a riflettere sul tempo presente, a costruire un futuro migliore. Il mestiere di un intellettuale consiste nel pensare per rimediare alle cose che non funzionano, che non sono adatte all’epoca in cui vive, e nell’elaborare un a cultura che più conviene all’umanità e al suo divenire (…).
Pensare presuppone anche coraggio per sopportare le critiche, la solitudine, il dubbio. Pensare significa azzardarsi fuori dal comune, fuori dalle abitudini, fuori dal consueto (…). La vita di un vero intellettuale non è mai, quindi, il percorso agevole e quieto che certi altri lavoratori si figurano.”
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Intrattenimento. Occorre risemantizzare le parole, attribuire loro il corretto significato e ad esse far corrispondere comportamenti adeguati. Che cos’è oggi l’intrattenimento e che cosa potrebbe essere? Michael Chabon, Perché leggiamo, ne “La Repubblica” di sabato 23 gennaio 2013, p. 43 (il testo è un brano di Mappe e leggende, Indiana Milano 2013) ne parla a proposito del leggere e dello scrivere, ma la parola intrattenimento non riguarda solo queste attività, bensì tutti i rapporti umani. Ecco cosa Chabon scrive: “Il senso originario, e incantevole, della parola “intrattenimento”, è quello di un reciproco sostenersi, come due alberi cresciuti insieme, intrecciati, che si sorreggono e si danno forza a vicenda. Suggerisce una sorta di trasferimento aereo di energia, di contatto attraverso un vuoto, come il groviglio di acciaio e cavi tra due pilastri solitari di un ponte. Non riesco ad immaginare un’approssimazione migliore del rapporto fra lettore e scrittore. Il senso che ne deriva – di scambio proficuo, mi mutuo sostentamento, di accoglienza offerta, di comprensione e reciproca relazione, di un breve intervallo di attenzione bilaterale nel quale si dà e si riceve – anima ancora nella sua forma. (…) … l’intrattenimento – così come io lo definisco, piacere compreso – rimane l’unico modo sicuro che abbiamo per superare, o almeno illuderci di aver superato, l’abisso di coscienza che ci separa gli uni dagli altri. La migliore risposta a chi vorrebbe svilirlo e sfruttarlo consiste non nello screditare o ripudiare, bensì nel rivendicare l’intrattenimento come un’occupazione degna degli artisti e del pubblico, uno scambio equo di attenzione, di esperienza, e della fame universale di rapporti umani”.
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Citazioni. Scrive Michel de Montaigne, Saggi, Libro II, cap. XVIII: “Che cosa c’è da ridire, dunque, se presto un po’ più attentamente orecchio ai libri, da quando sto all’erta se posso sgraffignare qualcosa per abbellire e puntellare il mio?”.
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Respice finem. Scrive Søren Kierkeegard, Postilla conclusiva non scientifica, in Opere, 1972, p. 508: “Il latino dice: respice finem, e usa quest’espressione sul serio; ma l’espressione in se stessa contiene una specie di contraddizione in quanto che finis, la fine, non è ancora venuta e quindi sta davanti, mentre respicere significa guardare indietro: una contraddizione simile è in fondo la spiegazione umoristica dell’esistenza. Essa afferma che se l’esistere è come l’avanzare per un cammino, allora la caratteristica dell’esistenza è che lo scopo sta indietro e però si è costretti ad andare avanti, perché l’andare avanti è naturalmente l’immagine per indicare l’esistere.”.
Se vivere è un continuo respice finem, perché la scrittura non dovrebbe anch’essa voltarsi indietro nel mentre procede verso la fine? Chi si meraviglierà allora se questo Zibaldone procede allo stesso modo?
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Per chi scrive, il pericolo dello snobismo è sempre in agguato. Quante volte ne ho parlato in questo Zibaldone, citando alcuni scrittori che ne hanno avvertito il rischio! Riassumerei la faccenda in questi termini: lo snobismo, risultato della mancanza di senso critico, inevitabilmente produce pose letterarie che rendono innaturale la scrittura e determinano il fallimento dello scrittore. Vada sé che quando dico dello scrittore, vale per ogni uomo incapace di pensiero.
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Nei confronti del potere, tre possono essere gli atteggiamenti dell’uomo: 1) essere fautore del potere; 2) contrastarlo; 3) ammirarlo (l’atteggiamento dello snob). Aggiungerei un quarto modo di rapportarsi al potere: nei limiti del possibile, ignorarlo.
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Il titolo di questa rubrica, Zibaldone galatinese, contiene un omaggio a Giacomo Leopardi e al suo Zibaldone. L’aggettivo galatinese è dovuto al luogo in cui è stato pensato, scritto e pubblicato.
Nella lettera ad Antonio Fortunato Stella da Recanati, del 22 novembre 1826, n. 1021 dell’Epistolario, a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 1268, Leopardi definisce con due aggettivi il suo Zibaldone: “quell’immenso volume ms. o scartafaccio” e “quel mio smisurato manoscritto”: immenso e smisurato. Sembra che non esista altro modo per qualificare la natura dello Zibaldone; anche di questo mio.
Mi chiedo se l’immensità e la smisuratezza di cui parla Leopardi siano riferibili solo alle numerosissime pagine, ben 4525, di cui è fatto il suo Zibaldone oppure se altra sia la ragione. Ebbene, nelle pagine di questo mia rubrica ho sperimentato di persona, e il lettore con me, che la ragione di tutto questo è nella natura del pensiero critico, il cui orizzonte si allontana man mano che esso progredisce. La critica dell’esistente va di pari passo con la ricerca di un nuovo sapere, tutto da inventare, da pensare. Occorre muoversi in tutte le direzioni, percorrere nuove strade, avere il coraggio di avanzare in territori incogniti, dove all’improvviso può apparire, come accade nel Dialogo della Natura e di un Islandese, “una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi”. La “smisurata” Natura – si noti l’aggettivo -, sbarra la strada al povero Islandese e gli oppone un sapere certo e indubitabile, in cui si compendia tutta la dismisura del mondo rispetto all’uomo: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?” (Giacomo Leopardi, Operette morali, in Poesie e prose II, a cura di Rolando Damiani, Mondadori, Milano 2003 (X edizione dei Meridiani), pp. 76 e 81). Questo sapere smisurato (nel senso che stabilisce una volta per tutte il nostro essere un nulla nel mondo in cui viviamo) costituisce il nostro limite invalicabile, che richiede tutta la nostra forza e il nostro coraggio per apprenderlo. La scrittura dello zibaldone ha precisamente la forma “immensa”, “smisurata” che gli si addice, congrua rispetto all’oggetto della ricerca. Mi immagino che nel suo viaggio il povero Islandese si portasse dietro tutto il suo sapere come nei suoi spostamenti Leopardi portava sempre con sé il suo “immenso volume ms. o scartafaccio”, col fine non tanto nascosto d’esser pronto a misurarsi con la Natura.
Non c’è altra ragione per questo mio Zibaldone galatinese, che dichiara, sin nel titolo, l’omaggio a Leopardi, ovvero l’assunzione incondizionata della scrittura zibaldoniana come l’unica in grado di rappresentare la condizione esistenziale della nostra vita.