A quel tempo che fummo creduloni cominciavano a correre gli anni Ottanta, e tutto sembrava possibile, tutto sembrava che brillasse come le luci di una luminaria della festa patronale, e noi camminavamo sotto quella luminaria, allegri, spensierati. Forse perché avevamo avuto paura per tutti i dieci anni che erano passati. Forse perché nei dieci anni passati ci eravamo sentiti esposti ad ogni imprevisto, ogni fatalità.
A quel tempo avevamo vent’anni, o qualcuno di meno o qualcuno di più.
A vent’anni, l’estate è assoluta e sfuggente; è piena ed è vuota; è tutto ed è niente; è triste ed allegra, pensosa e incosciente. L’estate a vent’anni è un falò sula spiaggia. La cenere che resta.
Allora: avevamo vent’anni ed era estate: con le notti che non finivano mai, con le albe che si posavano sui volti assonnati di amori che arrivavano come doni inaspettati e se ne andavano lasciando soltanto un’esile ombra di rimpianto.
Forse furono anche anni di riflusso. Forse furono anche superficiali, capricciosi, frivoli. Sì, furono anche frivoli quegli anni.
Però, per gli italiani in patria e all’estero furono il tempo della fiaba di un’Italia che vince sulla Germania per tre a uno.
La felicità stava tutta in quel finale della fiaba, e si pensò che potesse durare all’infinito. Però una volta Paolo Rossi ha detto: “Eravamo campioni del mondo. Feci solo mezzo giro di campo coi compagni: ero distrutto. Mi sedetti su un tabellone a guardare la folla entusiasta e mi emozionai. Ma dentro sentivo un fondo di amarezza. Pensavo: “Fermate il tempo, non può essere già finita, non vivrò più certi momenti”. E capii che la felicità, quella vera, dura solo attimi”.
Eppure a quel tempo fummo così creduloni, così volutamentecreduloni da pensare che quella felicità potesse durare per sempre.
Poi gli anni Ottanta passarono. Poi passarono anche i Novanta. Poi passarono gli altri venuti dopo. Quelli che avevano vent’anni allora, o qualcuno di meno o qualcuno di più, hanno avuto storie a volte belle, a volte tristi, hanno avuto passioni, entusiasmi, paure. Hanno avuto entusiasmi, sogni, delusioni.
In un libro ritrovo questo passo: “Come in una poesia di Giorgio Caproni qualcuno è salito sul treno, qualcuno è sceso. E ad ogni fermata ci siamo detti benvenuti o arrivederci o addio. Qualcuno ha sistemato i bagagli e ha preso posto una sera. Qualcuno è sceso all’alba, in silenzio, senza fare rumore, per non disturbare l’intorpidito dormiveglia di chi continua ad andare. Fuori dal finestrino mutano i paesaggi, continuamente. Nello scompartimento i discorsi si intrecciano, come i destini”.
Però hanno continuando a credere alle fiabe. Hanno continuato a credere agli eroi che abitano le fiabe. Come Paolo Rossi. Tutti quelli che a quel tempo avevano vent’anni, o qualcuno di meno o qualcuno di più, hanno immaginato, anche per un istante solo, durante la partita, ad uno dei suoi goal, di essere Paolo Rossi. Perché volevano essere eroi. Volevano essere di quegli eroi umili semplici sinceri, che rassomigliano straordinariamente a tutti coloro che eroi non sono ma che potrebbero diventarlo in qualsiasi momento soltanto assecondando il sogno di qualcuno, di un intero Paese o di un solo uomo. Volevano essere eroi come Paolo Rossi, e forse lo sono stati, tutti, ciascuno per fatti suoi, forse lo sono, ciascuno dentro i suoi giorni, nel suo lavoro, per un istante solo, nel flash di un dormiveglia.
Poi ci sono gli altri. Quelli che l’undici di luglio dell’Ottantadue di anni ne avevano dieci, trenta, quaranta, che hanno sognato pure loro di essere eroi come Paolo Rossi. Forse lo sono stati, forse lo sono. Eroi di una fiaba in cui si racconta che la felicità può derivare dall’amore o da una partita di pallone con la quale si vince un mondiale.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 13 dicembre 2020]