di Antonio Errico
Eppure a quel tempo fummo così creduloni, così incredibilmente, meravigliosamente creduloni da pensare che la felicità potesse derivare dall’amore oppure da una partita di pallone con la quale si vince un mondiale. Scoprimmo qualche anno dopo quei versi di Montale che dicono così: “Felicità raggiunta, si cammina/ per te sul fil di lana./ Agli occhi sei barlume che vacilla/ al piede, teso ghiaccio che s’incrina; / e dunque non ti tocchi chi più t’ama/. Se giungi sulle anime invase/ di tristezza e le schiari, il tuo mattino /è dolce e turbatore come i nidi delle cimase./Ma nulla paga il pianto di un bambino /a cui fugge il pallone tra le case.”
Ma a quel tempo eravamo così creduloni, così stupendamente creduloni da pensare che non avremmo mai potuto piangere per un pallone che si perde sulle terrazze delle case. Pensammo, invece, che il pallone sarebbe rimasto per sempre lì, sul prato del Santiago Bernabeu di Madrid, che quell’undici di luglio dell’Ottantadue sarebbe durato in eterno, che non si sarebbe mai smorzato l’urlo di Nando Martellini, non si sarebbe mai dissolta l’angoscia per il rigore sbagliato da Cabrini, e che quell’immagine di Sandro Pertini che gioca a scopone con Zoff, Causio e Bearzot non sarebbe diventata pagina di storia ma una scena che ritorna ogni giorno dentro gli occhi.
A quel tempo non pensammo mai che un giorno Paolo Rossi non ci sarebbe stato più. Perché gli eroi possono anche piangere di dolore, ma morire mai. Di Paolo Rossi su questo giornale hanno già scritto Francesco G. Gioffredi e Stefano Cristante delineandone il ritratto del campione nel contesto sociale e culturale, cogliendone tutta la significanza di metafora.