Erodoto nelle sue Storie immagina un colloquio fra Creso e Solone in cui il re dei Lidi chiede al saggio ateniese chi sia l’uomo più felice del mondo, aspettandosi che Solone risponda che è lui stesso ed ottenendo invece in risposta il nome di Tello e poi, sollecitato ancora, il nome di Cleobi e Bitone. Creso si adirò per quell’affronto di Solone, il quale disse: «Tu sulla sorte umana interroghi, o Creso, un uomo che sa come la Divinità sia sempre gelosa e rechi turbamento. Perché la vita è lunga e in essa molte cose non desiderate si possono vedere e molti dolori soffrire […] Sicché dunque l’uomo dipende, o Creso, interamente dal caso. Tu mi appari ricchissimo e re di molta gente. Ma prima di avere appreso che tu abbia terminato felicemente l’esistenza, io non dico ancora che tu sia quello che mi hai chiesto. Perché, se non lo accompagna la sorte di terminar bene con ogni prosperità la vita, il più ricco uomo del mondo non è più felice di chi vive alla giornata. Molti uomini straricchi sono infelici e molti che han mezzi mediocri sono fortunati […] Ed è giusto, a mio parere, o re, che riporti tale attributo di felice quegli che fino in ultimo conserva il maggior numero di beni e che poi bene termina la vita…» (Erodoto, Storie, I, vv. 30 ss. – traduzione P. Sgroi). E il re Creso, che aveva mosso guerra a Ciro, re dei Persiani, venne sconfitto e condannato a morte. Ma salito sul rogo, si ricordò di queste parole, comprese il suo errore e gridò per tre volte “Solone!”. Creso aveva in quel momento fatale capito quanto siano alterne le fortune umane e come davvero in un giorno possa ribaltarsi la situazione di ognuno.
Così anche nell’Epilogo dell’Edipo Re, Sofocle dice: «Nessun uomo mortale attendendo di vedere il suo ultimo giorno, bisogna ritenere felice, prima che il termine della vita abbia varcato, senza aver sofferto alcun male» (Sofocle, Edipo re, vv.1528-1530). Nell’ Edipo a Colono, leggiamo che il Re Teseo dice al vecchio Edipo: «So di essere un uomo e che a me, come a te, è ignoto il domani». (Sofocle, Edipo a Colono, vv.567-568).
Ancora, nell’Andromaca, Euripide mette in bocca alla protagonista della tragedia queste parole dalla forte connotazione gnomica: «Non dire felice mai nessuno prima che abbia conosciuto l’ultimo giorno e scenda tra i morti!» (Euripide, Andromaca, vv.100ss. – traduzione E. Mandruzzato); e pensiamo anche alle parole di Agamennone nell’ Ifigenia in Aulide: «Nessun uomo è fortunato o felice fino in fondo; nessuno è esistito finora senza dolore». (Euripide, Ifigenia in Aulide, vv.161-163).
Lo stesso Simonide, in un altro treno, scrive: «Degli uomini scarso è il potere, sono gli affanni vani; dolore su dolore è la breve vita. Su tutti uguale pende l’inevitabile morte: i vili e i forti ugualmente l’hanno in sorte». (Simonide, fr. 15 P – traduzione G. Perrotta).
Questo motivo della mutevolezza delle sorti umane ritorna in una tragedia perduta di Sofocle, il Tindaro, e precisamente: «Non bisogna mai ritenere felice la sorte di un uomo fortunato, prima che abbia interamente concluso la corsa della sua vita. In breve piccolo tempo l’azione di un demone maligno può distruggere una molto grande fortuna, quando vi sia un mutamento e questo gli dei abbiano deciso» (Sofocle, Tindaro, vv.1528-1530) Simonide, poeta molto amato dal Leopardi che da lui fu ispirato per la canzone All’Italia, affronta dunque uno dei topoi del pensiero greco, che tocca anche Ovidio nelle Metamorfosi: «Ma vero è che sempre l’uomo debba attendere il giorno estremo: nessuno mai, prima della morte e delle proprie esequie, dovrebbe asserirsi felice.» (Ovidio, Metamorfosi, Libro III, vv.135-137).
Poi Simonide, sempre nel Frammento 16, continua: «ché neanche il volo di una mosca alata è rapido come il destino». La vita umana dunque viene paragonata al volo di una mosca, un volo che sappiamo bene essere niente affatto lineare, ma tortuoso, e questo rende meglio l’idea dell’insicurezza, della precarietà: la rapidità con cui la mosca, insetto molesto, si muove da un posto all’altro metaforizza la mancanza di equilibrio della vita, la facilità con cui di repente possono mutare le sue sempre alterne fortune. Il pessimismo di questa lirica rivela l’anima di Simonide. “In questi versi”, scrive G. Perrotta, “la Stimmung non è nella sentenza iniziale, che è tipica del modo di pensare greco: la troviamo in Teognide, in Pindaro, in Eschilo, in Sofocle, in Euripide, in Erodoto. Ma è nel paragone crudo, di una crudezza e di una audacia che si direbbero moderne, delle vicende di una vita umana col volo di una mosca. Quale doloroso disprezzo dell’umanità è già in Simonide!”.
Ricordo che, leggendo la prima volta questi versi, pensai, chissà perché, alla traduzione in inglese del termine mosca, ossia “fly”. E in quegli anni, quand’ero ancora al Liceo, aveva grande successo il film di David Cronemberg, La mosca. Quello che mi incuriosiva di più però era il fatto che in inglese la mosca e il verbo volare si traducono nello stesso modo: appunto fly. E The fly, “la mosca”, era il titolo di una canzone degli U2 contenuta nell’album Acthung baby che rimane uno dei miei preferiti della band irlandese. Il volo della mosca, dunque, in inglese diventa “the flight of the fly”, mentre la locuzione “la mosca vola” si traduce con “the fly flies”. Era curioso che questa omografia nella lingua inglese fosse compresa nella poesia di Simonide: il volo della mosca. I motivi di questa associazione di idee, però, non saprei spiegare, ma la mente fertile di un adolescente partorisce fantasie che sono più alate e ancor più veloci della mosca e soprattutto hanno un destino diverso. Ché, se quella è attirata e staziona sovente sugli escrementi, alla fantasia sono invece riservati gli spazi celesti. E come il volo di una mosca, anche questo pezzo si conclude.